Italo Svevo - L'assassinio di Via Belpoggio

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Italo Svevo

L’ASSASSINIO DI VIA BELPOGGIO

I

Dunque uccidere era cosa tanto facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé: Nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di quell’Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con un’esattezza di cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là sull’erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti erano veramente di un morto, anzi di un assassinato.

Scelse le vie più dirette; le conosceva tutte ed evitava i viottoli per i quali non direttamente si allontanava.

Era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alla calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò oltre non badando alle grida d’imprecazione ch’ella gli lanciava.

Si fermò sul piazzale di S. Giusto. Sentiva che il sangue gli correva vertiginosamente le vene, ma non aveva alcun affanno e non era dunque la corsa che lo aveva affaticato. Forse il vino poco prima? Non l’assassinio, sicuramente non quello; non lo aveva né affaticato né spaventato.

Antonio lo aveva pregato di tenergli per un istante quel pacco di banconote. Poco dopo, quando Antonio gliene chiese la restituzione a lui balenò alla mente l’idea che ben poca cosa lo divideva dalla proprietà assoluta di quel pacco: La vita di Antonio! Non ne aveva ancor ben concepita l’idea che già l’aveva posta ad esecuzione e si meravigliava che quella idea che ancora non era una risoluzione gli avesse dato l’energia di menare quel colpo formidabile tale che dello sforzo si risentiva nei muscoli del braccio.

Prima di lasciare il piazzale stracciò l’involucro che chiudeva il pacco di banconote, lo gettò via e ne distribuì disordinatamente per le tasche il contenuto; poi s’incamminò con passo che volle calmo ma che ben presto e per quanto egli tentasse di frenarlo, ridivenne celere perché moderarlo sul piano era difficile, dopo esser salito di corsa. Finì che fu preso da un grande affanno che lo costrinse a fermarsi, proprio sotto il castello, con la sentinella che guardava la città nella quale allora allora era stato commesso il grande delitto.

Sulla scalinata che conduceva alla piazza della Legna gli fu più facile di moderare il passo ma soltanto badando di portare sempre tutti e due i piedi su uno scalino prima di scendere al prossimo. Voleva riflettere ma non seppe che prenderne l’atteggiamento. Ben presto si disse che non ve n’era bisogno visto che ogni suo movimento era ora dettato dalla necessità! Accelerò di nuovo il passo. Senza ritardo egli si sarebbe recato alla ferrovia e avrebbe tentato di partire per Udine; di là gli sarebbe stato facile di passare in Svizzera.

Allora era perfettamente in sé. S’era dileguata la leggera nebbia prodotta nel suo cervello dalla cena che gli aveva pagata il povero Antonio. Non era stata la causa del delitto, ma il vino, fornitogli dalla sua vittima stessa, gliene aveva reso più facile l’esecuzione.

Se non avesse avuto quei fumi alla testa non avrebbe saputo dimenticare che commesso il delitto, molto ancora gli restava da fare prima di assicurarsene il frutto, e col suo carattere poco energico, inerte, avrebbe sempre cercato mezzi e modi e finito col non agire che al sicuro, dunque mai.

Dove si poteva uccidere al sicuro? E se ci fosse stato il luogo, Antonio si sarebbe potuto trascinare? Gli venne da ridere; quell’Antonio era tale un imbecille che lo si avrebbe potuto far andare espressamente ad un macello più lontano.

Camminava ora franco e calmo per la via ma non si dissimulava che la sua tranquillità veniva dal sapere che nessuno dei passanti poteva ancora essere a conoscenza del delitto da lui commesso. Per costoro, assolutamente, egli era ancora un uomo onesto e li guardava franco in faccia quasi per usufruire per l’ultima volta del diritto che stava per perdere.

Alla stazione però lo colse di nuovo l’agitazione di poco prima. Là egli aveva da fare il passo che doveva avere tanta importanza sul suo destino. Se lo si lasciava partire era salvo. Quale calma non gli sarebbe stata data dal sentirsi trascinare lontano con la rapidità vertiginosa del celere; perché, con un senso ch’egli non aveva saputo di avere, dall’altra estremità della città egli sentiva avanzarsi la notizia dell’omicidio e la persecuzione e sapeva che se non fuggiva, ben presto ne sarebbe stato raggiunto.

Alla una doveva partire il treno e ci mancava una mezz’ora circa. Egli non voleva entrare nell’atrio vuoto molto tempo prima della partenza, ma non seppe rimanere lungo tempo, solo, nell’oscurità e ciò non per timore ma per impazienza. Aveva guardato a lungo l’orologio della stazione sorvegliando su esso l’avanzare del tempo, poi osservato il cielo stellato e senza nubi.

Che cosa gli restava a fare? «Se avessi qualcuno con cui parlare!», pensò e fu in procinto di abbordare un cocchiere che dormicchiava a cassetta della sua carrozza. Ma si trattenne perché correva pericolo di parlargli del suo delitto e come all’infuori della grande paura del giudizio dei suoi simili, a sua sorpresa egli non sentiva affatto rimorso ma invece una specie di superbia per la risoluzione ferrea presa improvvisamente e per la esecuzione ardita e sicura.

Entrò nell’atrio. Voleva vedere le facce dei presenti ritenendo di poter comprendere da queste il destino che lo attendeva.

Sulla panca accanto alla porta erano sedute due donne friulane vicino ai loro cesti, a mezzo addormentate. In fondo alcuni doganieri maneggiando dei colli e a sinistra, nella birraria, v’era un solo uomo grasso che fumava seduto dinanzi ad un bicchiere di birra semivuoto.

Si meravigliò di nuovo dell’acutezza della sua vista e mai non s’era sentito così forte ed elastico, pronto a lottare o a fuggire. Pareva che il suo organismo avvisato del pericolo che correva avesse raccolto tutte le forze per mettergliele a disposizione in quel frangente.

Il suo passo risonava forte nel locale vuoto e destava una eco confusa. Le due friulane alzarono il capo e lo guardarono.

Egli picchiò al finestrino della dispensa per chiamare l’impiegato e non senza sforzo, seppe attendere senza muoversi i parecchi minuti che costui ci mise a rispondere.

– Un biglietto per Udine!

– Che classe?

Non ci aveva pensato.

– Terza. – Non sceglieva quella per economia ma per prudenza; bisognava viaggiare in conformità ai vestiti molto sdrusciti.

– Andata e ritorno – aggiunse rapidamente e sorpreso della buona idea venutagli.

Per pagare levò un pacco di banconote ma le rimise subito in tasca; ve ne erano da mille fiorini. Trovò un piccolo pacchetto da dieci fiorini e pagò.

Gli sembrò che l’opera fosse compita a metà ora che aveva il biglietto in tasca. Anzi meglio che a metà perché non aveva più da parlare con nessuno. Gli bastava sedersi tranquillamente nel suo compartimento con quelle friulane che gli davano poco sospetto e il resto era affare della locomotiva.

Bisognava occupare in qualche modo il tempo che mancava alla partenza. Pose le mani in tutte le tasche e palpò i biglietti di banca. Erano soffici quasi volessero simboleggiare la vita che potevano dare.

Così con le mani in tasca si appoggiò ad un pilastro della porta, il punto più oscuro dell’atrio donde poteva sorvegliare tutto l’ambiente senza venir veduto. Anche sentendosi perfettamente al sicuro non voleva tralasciare alcuna precauzione.

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