Francesco Domenico - La battaglia di Benvenuto
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«Quale?» domandarono tutti.
«Non avete veduto la casetta che vi sta dal manco lato a breve distanza? Venitemi dietro, chè ne conosco la via; la fece fabbricare per comodo della caccia la Maestà dello Imperator Federigo nostro signore.»
«Riccardo!» urlò involontariamente Manfredi «per amore del tuo Dio, non mi condurre a quella casa.»
«E dove volete passare la notte, messere il Principe? Che San Gennaro vi aiuti, sentite che grandine è questa? Venite, venite.»
Manfredi senza aggiungere parola gli tenne dietro: allorchè fu per passare la porta della casa prese pel braccio Corrado Capece per evitare di cadere.
«Principe, male v’incolse?»
«Nulla, Corrado, ho posto il piede in fallo.» E si avanzò.
Riccardo frugando così al buio rinvenne alcuni fasci di legna, li dispose sul focolare, trasse dalle tasche il focile, e suscitò un bel fuoco.
«Questa è fiamma veramente reale, » disse sorridendo Manfredi.
«Oh! ne abbiamo fatti di belli di questi fuochi, messere il Principe… quelli sì che erano tempi!… figuratevi, l’ultima volta ch’ebbi l’onore di servire la Maestà dello Imperatore vostro padre, lo vidi in questa medesima stanza… mi sembra proprio di averlo innanzi gli occhi… lì a canto a voi…»
«E’ parvi da durare questo tempo?» interruppe Manfredi.
«Messer sì,» rispondeva Riccardo. «Sicchè, com’io vi diceva, stava in questa stanza, e vi potrebbe essere anche adesso… e perchè no? Egli morì giovane, mi ricordo, giungeva appena a cinquantasei anni… e vivo io grazie al cielo, che ne ho sessanta, e sono un vassallo, poteva bene viver egli che ne aveva cinquantasei, ed era il più potente signore di tutta Cristianità; ma la fama mormorò allora che fosse avvelenato… Oh! quando poi c’entra il veleno, si muore anche dell’età del Re Corrado…»
«Santa Vergine! questo è un fulmine,» disse Manfredi segnandosi.
«Messer sì…» soggiunse Riccardo. «Raccontano molti, e l’ho inteso sovente dalla propria bocca di mio padre, buona memoria, che rammentando i morti dopo la mezza notte sogliono talvolta apparire… ma io non ho paura… io… E perchè dovrei averne?… per quanto mi venne dato, l’ho servito fedelmente sempre, in vita o in morte. Quantunque comprendessi benissimo, che la preghiera di un pover’uomo come sono io possa poco o nulla giovare alla grande anima di uno Imperatore, pure per quello che può valere le ho detto, e le dico la mia orazioncella. Insemina, se ora comparisse in mezzo di noi, io non avrei paura… no, non avrei paura…» e tutto timoroso si guardava d’intorno. «E voi, messere il Principe?»
Manfredi non potendo più sopportare quelle parole. si fece alla porta, guardò il cielo, poi chiamò i compagni e disse: «Mi pare che si metta al buono.»
«Certamente si mette al buono;» rispose Riccardo «tra mezz’ora non cade più pioggia… ma vedete come è mutato il vento!… come tirano di lungo que’ nuvoloni neri neri! – La tempesta va verso Napoli… Pazienza! là si trovano tanti buoni Santi, che ne avranno cura; ma qui non c’è prete che valga a esorcizzarla. Guardate in là, messere il Principe, come fa chiaro. Oh! ne abbiamo avute ben altre di queste nottate con l’augusta Serenità di vostro…»
«E sarebbe bene, Riccardo, che voi andaste con un po’ di strame, se ne trovate, altrimenti col mio mantello, ad asciugare i cavalli.»
«Parvi, messere il Principe? il vostro mantello del più bel verde cambraio , che io abbia visto al mondo! il mio fa più al caso di quelle povere bestie… eh! hanno fatto un bel fare… e poi il mio mantello è più asciutto del vostro, farò con questo.» E così dicendo Riccardo andò per quello che gli aveva comandato il suo signore.
Manfredi facendosi presso ai Capece, che se ne stavano ristretti intorno al fuoco: «Prodi cavalieri, e dilettissimi amici miei,» disse loro «io vengo a togliervi fino il piccolo conforto di asciugarvi le vesti: vedete che si guadagna a seguitare la fortuna del profugo! Tra poco torneremo a cavallo.»
«Principe, noi ci professiamo pronti a lasciare la vita per voi… le spose e i figli abbiamo di già lasciati.»
«Io per me spero che il Cielo mi sarà secondo, se non altro, per potere ristorare dei sofferti danni voi, generosi e fedeli amici miei.»
«Servire un cavaliere cortese come voi siete è di per sè solo una grande ricompensa. I nostri nomi, Principe, passeranno ormai nella memoria dei posteri uniti con indissolubile alleanza; saranno le vostre azioni le lodi nostre, e le nostre opere le vostre lodi: una gloria perenne ricadrà su noi tutti, nè i Trovatori canteranno di Manfredi senza che il nome dei Capece si trovi in qualche stanza della loro ballata.»
Manfredi gli abbracciò, e continuò seco loro a conversare, finchè udirono venire Riccardo che cantava:
«In sella, in sella, cavalieri armati,
Che l’araldo dell’arme ha dato il segno;
Stanno le vostre dame agli steccati,
Un scudo d’oro di vittoria è il pegno.»
Allora si levarono tutti: il cielo appariva in parte sereno; salirono i destrieri, e si riposero in via.
Sorgeva un bel giorno: gran parte dei Saracini stava raccolta sopra le mura di Lucera a cantare il Salè della Nuba matutina, allorquando videro di lontano venire per la pianura quattro cavalieri armati di tutte arme. Giunti che furono a tiro di balestra, tre si rimasero, ed uno si avanzò a testa scoperta in segno di sicurezza, alzando la mano senza guanto per denotare la pace.
«Pel capo di mio padre, parmi Manfredi!» gridò un Saracino.
«È la morte che ti percuota!» rispose un altro. «Chi sa in qual parte si trova adesso il nostro dolce signore!»
«Possano dirmi sette volte cane, e maladetta la mia generazione, se quegli non è il figlio di Federigo!» rispose un terzo.
«Perchè hai bevuto il sangue della vite , Hussein? Non lo aveva detto il Profeta, che il vino ammala il cuore, e ci fa simili allo stolto?»
«Baba Musah, perchè mi dici ebbro? E perchè accusi dei danni della tua vecchiezza il compagno che vede meglio di te? Questo t’insegna la sapienza degli anni? Guarda bene: non distingui l’aquila d’argento sul cimiero appeso all’arcione?»
« Arsullah! Sì certo, è un’aquila quella… Arsullah! È Manfredi davvero.»
«Manfredi, Manfredi,» suonarono a un tratto le mura: «Manfredi, Manfredi,» risposero i Saracini rimasti nei quartieri, e prendevano l’arme, e accorrevano, «Ecco il diletto signore, ecco il nostro Principe, che viene a soddisfare i nostri desiderii, e a riposarsi su la nostra lealtà: ch’egli entri, ch’egli entri prima che il Governatore se ne accorga.» gridavano tutti.
Manfredi era giunto sotto le mura: un Saracino gli accennò un canale pel quale scolava un rigagnolo dalla città; il Principe si getta da cavallo, e si appresta a cacciarsi giù pel condotto: – nol soffrono gli spettatori, si fanno alle porte, le scuotono, le percuotono; – gli arpioni agli urti continuati lasciano la presa, e le imposte traendosi dietro una spaventosa rovina cadono a terra. Marchisio, che già armato muoveva per contrastare Manfredi, vedendolo avanzarsi tutto minaccioso, mutato consiglio, gli s’inginocchia, e gli fa omaggio come a suo signore sovrano.
L’acquisto di Lucera mutò i destini di Manfredi; vi trovava infiniti tesori, i quali, diffusi con accortezza, gli produssero in breve un forte partito, perocchè in ogni tempo il danaro sia stato la prima provvisione per la guerra, e in ogni tempo si trovassero uomini i quali posero l’anima allo incanto pel maggiore e migliore offerente . Ora il Pontefice spediva a tutta fretta un esercito sotto i comandi del Cardinale di Santo Eustachio per opprimere Manfredi sul principio di quelle grandezze; gli teneva dietro Bertoldo. Manfredi si mostrava apparecchiato a combatterli. Il Marchese di Hochenberg, seguendo sempre quella sua doppia e finta natura, mandò un messo fidato a tenere segrete pratiche d’accordo col Principe di Taranto. Rispose questi che volentieri lo raccoglierebbe nella sua alleanza; averlo sempre tenuto per caro fratello, ed amico; conoscere egli di troppo la prepotenza dei casi per volere far carico a Bertoldo della sua passata condotta. Il Marchese non andò più oltre, e stimò avere con molta accortezza provveduto alle cose sue, perchè, se vinceva Manfredi, ei gli era amico segreto: se Innocenzio, ei gli era amico manifesto. Intanto supponendo il nemico fidente di quelle dimostrazioni, mandò molte colonne del suo esercito sotto il comando del suo fratello Oddo a prendere posizione sul contado di Lucera; il nemico però stava all’erta, e avuta notizia del fatto si pone arditamente in campagna, rompe Oddo, e lo incalza fino a Canosa; poi lasciatolo così malconcio in parte che non più possa riunirsi al grosso dell’armata, si fa contro Bertoldo, il quale, dopo due ore di ostinato combattimento costretto a cedere, fugge più che di passo verso Napoli col Cardinale Legato.
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