Francesco Domenico - La battaglia di Benvenuto

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Gli accorgimenti di Manfredi non dovevano gran pezza durare; egli li aveva operati per sospendere i casi presenti, sapendo che da cosa nasce cosa, e il tempo la governa, e per dare a divedere all’Hochenberg che penetrava i disegni suoi, e poteva renderli vani. Infatti il Marchese pensando che il sottomettersi adesso dopo Manfredi non gli avrebbe fruttato molto utile, stimò meglio mantenersi nemico, ed aspettare occasione di vendere a caro prezzo la sua resa. L’occasione non tardò molto a venire. Vedeva Manfredi la petulanza dei fuorusciti napoletani, Morra d’Aquino, San Severino, che seco lui abitavano in corte del Papa; e con destrezza maravigliosa dissimulava, e gli oltraggi ricevuti altamente nell’animo imprimeva, divisando bene vendicarsene un giorno. Intanto Bonello di Anglone, suo capitale nemico, ottenuta dal Papa la investitura di parte del Principato di Taranto, per la strada di Alesina s’incamminava a prenderne possesso. Manfredi in quel giorno medesimo, avendo saputo che l’Hochenberg con lo esercito si avvicinava, mosse da Teano per andare ad abboccarsi con lui. Volle la fortuna, che per via s’imbattesse in Bonello, il quale tutto orgoglioso si avanzava tenendo la mano dritta del cammino. Manfredi scongiurava i compagni, affinchè adesso lo lasciassero stare, – non sarebbe mancato tempo a trarne vendetta; ma essi risposero, che non avrebbero consentito giammai che si facesse un tanto spregio al figliuolo dello Imperatore Federigo. Le due compagnie si accostavano, nè quella di Bonello sembrava volesse cedere; allora Marino Capece, uomo di natura avventata ed amicissimo di Manfredi, trascorse col suo destriero, e percotendo con la mazza ferrata le spalle di Bonello: «Scendi, schiavo,» gli disse «e fa omaggio al figlio del tuo Re.» Questo fu il segnale della battaglia; posero mano alle spade, e cominciarono a menare. Il Principe, da che non aveva potuto impedire che accadesse quel fatto, si studiò che riuscisse felice; e da franco cavaliere spintosi con incredibile furia addosso al Bonello, lo afferra al cimiero, gli scioglie la barbuta che gli difendeva la testa, e col pugnale gli sega la gola: i compagni di Bonello, visto quel caso, fuggono a precipizio. La nuova giunse tosto in corte del Papa, il quale, infellonito per la morte d’Anglone, spedì gente a perseguitare l’uccisore. Manfredi, stimandosi male sicuro all’aperto co’ suoi fedeli, si rifugiò nel castello dell’Acerra, dove rimase alquanti giorni. Bertoldo, visto Manfredi in disgrazia del Papa, gli si fece subito nemico, o con tutto il suo esercito ad Innocenzio si vendè. Il Marchese Lancia avvertì il suo nepote Manfredi, affinchè si partisse dall’Acerra. Manfredi adesso ramingo e profugo era venuto in parte che non aveva più terreno che lo sostenesse. Sperava ripararsi in Lucera, ma anche questa città era in poter dei nemici: nondimeno nessuno altro rifugio si presentava, e in ogni caso era forza tentare: ma torrenti, montagne e nemici, prima di pervenirvi si frapponevano. Chi avrebbe voluto correre tanto manifesto pericolo, e partecipare seco lui la presente sventura? Corrado e Marino Capece, singolare esempio di amore fraterno e di lealtà, risposero, stesse pure di buon animo, ch’essi come pratichi di que’ dirupi speravano in Dio di condurlo a buon salvamento. – Si posero in via. – Le cose andarono sul principio a seconda: fino a Magliano non incontrarono anima vivente. Giunti in questo borgo, trovarono una colonna dell’esercito di Bertoldo, quivi fermata con ordine di chiudere le vie di salute a Manfredi. Si accôrsero i fuggitivi dello imminente pericolo, e si dettero a traversare il borgo con molta accortezza. Già stavano presso ad uscirne con avventuroso successo, allorchè intopparono in doppio filaro di carri posto a capo del cammino: i soldati lasciativi a guardia domandarono chi fosse; la più parte del séguito di Manfredi stimandosi perduta, trasse le spade gridando: «Svevia! Svevia! Siamo qui per punirvi, traditori.» Si venne a un duro affronto, nel quale il caso, più che la prodezza, dispensò i colpi. Manfredi, i Capece, ed alcuni altri rimasti addietro, affrettando i cavalli giunsero sul luogo, e videro che i loro compagni, fieramente assalendo, ed i nemici ritirandosi, avevano reso libero il passo: al punto stesso sentirono un mormorio lontano di gente, che si affaccendava per venire in soccorso della guardia dei carri; quantità di fuochi errava qua e là pel borgo; poco più che tardassero, erano irrimediabilmente chiusi nel mezzo. Manfredi, quantunque conoscesse la morte imminente, spinse il destriero per soccorrere i suoi, ma Corrado Capece lo rattenne, e gli disse: «Voi perdete, Principe, e quelli non salvate; essi furono valorosi, ma imprudenti… spargiamo una lagrima sul destino loro, e partiamo.» Toccarono allora di sproni, e quanto più poterono veloci si allontanarono. Traversarono nei giorni seguenti per Bisacca, per Bimio e per Guardia dei Lombardi, e tenendo il sentiero più alpestro giunsero sul fare della notte a vista di Atropalda, castello dei Capece.

* * *

«Baiardo!» gridò Marino: che precorse Manfredi sotto il castello. Fu sentito un cigolío di chiavacci, un aprire d›imposte, un montare di balestra, e una voce tuonante, che domandò: «Chi viva?» – «Viva Svevia, e San Gennaro: cala il ponte, Baiardo; son Marino.»

Fu calato il ponte; e quando Manfredi ebbe posto il piè su la soglia, i due fratelli Capece scesero da cavallo, gli si prostrarono alle staffe, e dissero: «Messere il Principe, siete in casa vostra.» – «Se la fortuna non mi corre sempre nemica, spero potervi dire le stesse parole a Napoli nel castello capuano.»

Le mogli dei Capece con donnesca leggiadria fecero al profugo Manfredi tutte quelle accoglienze che seppero maggiori; egli volle che sedessero alla sua mensa insieme ai loro mariti, e qui dimenticando le passate e le presenti sventure si mostrò tanto gaio e scherzoso, che quelle gentildonne, vedendolo in séguito spessissimo volte a corte, affermarono, ch›ei non fu mai tanto giulio , quanto in quella notte di pericolo. Alla mattina, Manfredi, salutate le dame, ed ingrossata la scorta di alcuni cavalieri della gente dei Capece, si dipartiva. Giunse a Melfi, che gli chiuse le porte; Ascoli seguì l’esempio, ed uccise per giunta il Governatore, che gli si manifestava devoto. Un uomo meno magnanimo si sarebbe dato per vinto; Manfredi, più che mai fermo contro la fortuna, si volse a Venosa, che rispettosamente lo raccolse.

Era Lucera dei Saracini in podestà del Marchese di Hochenberg, il quale vi aveva lasciato a governarla Marchiso con ordine di tenerne sempre chiuse le porte. Marchisio eseguiva i comandi del suo signore, ma non gli valse il consiglio.

Manfredi, lasciata a Venosa la scorta, tolse seco i due fedeli Capece e il maestro di caccia di Federigo, e si dispose a partire per Lucera; scansò Ascoli e Foggia. La notte lo sopraggiunse su l’entrare di quella sterminata pianura, che anche oggigiorno chiamano Tavoliere della Puglia; il cielo minacciava burrasca, ma il Principe di Taranto non era uomo da arrestarsi per la paura di un cielo turbato: – si avanzavano; le tenebre aumentano, il vento cresce impetuoso; – di tanto in tanto grosse goccie di pioggia gli bagnano il volto. Allo improvviso cessò il vento; tutto fu un profondo silenzio: per quella solitudine nessuna altra cosa si ascoltava, meno l’alternare dei passi dei cavalli. – Venne un lampo, poi un tuono, e dietro uno scroscio terribile di grandine: il vento che aveva cessato, quasi mostrando di non volere essere il primo ad attaccare la battaglia con gli altri elementi, tornò ad imperversare pel cielo. I baleni si succedevano con tanta rapidità da sembrare un incendio continuato. Spesso i cavalli balzarono indietro spaventati; i cavalieri, comunque usi a vedere la morte, si facevano il segno di salute, e si raccomandavano a Dio, perocchè lo spettacolo della natura sconvolta spaurisca assai più dell’aspetto della morte. Qual fu in quell’ora l’anima di Manfredi? Se i suoi compagni avessero potuto fissarlo in volto, avrebbero conosciuto dalla penosa contrazione dei muscoli, dagli occhi smarriti, dal sembiante disfatto, che nel suo cuore passava una tempesta più fiera di quella che sovvertiva in quel punto e cielo e terra. Ma essi stavano troppo preoccupati per la propria vita, onde fare coteste osservazioni; e la voce di Manfredi non tremava, anzi ora gl’incoraggiva, ora con qualche bel motto gli rallegrava. Disse un antico filosofo, non so con quanta convenienza di senno, che l’uomo onesto in fondo della miseria è cosa degna degli Dei: io per me penso, che un grande scellerato , il quale senta tutto lo inferno del rimorso, e sollevi la fronte baldanzosa e serena, sia non il più bello, certo bensì il più maraviglioso spettacolo della umana natura. – Così camminarono una lunga via: si squarciò l’orizzonte rovesciando sopra la terra torrenti di fuoco; le case più lontane ne furono illuminate; Riccardo maestro di caccia esclamò: «Coraggio, coraggio, cavalieri, ecco qui presso il ricovero.»

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