Francesco Domenico - La battaglia di Benvenuto

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CAPITOLO OTTAVO. MANFREDI

Lasciate questo canto, chè senz’esso

Può star la Storia, e non sarà men chiara:

Mettendolo Turpino, anch’io l’ho messo.

Orlando Furioso.

Se il fastidio di colui che ha percorso queste Storie giungesse alla metà di quello che ho avuto io nel compilarle, non dubito punto, che la soprascritta epigrafe dovesse essere con maggiore convenienza collocata innanzi il Capitolo settimo. Però, se il caso sta come ho detto, faccio qui solenne protesta, affinchè i versi citati si abbiano ad ogni effetto di ragione (per dirla co’ Legali) come anteposti al luogo menzionato. Se questa epigrafe poi sia, o no, valevole a scusarmi, io per vero dire non vedo ragione del contrario; perchè, se giovò all’Ariosto, come non dovrebbe giovare anche a me? Alcuno forse opporrà, ch’egli si trovò costretto a questo dalla cronaca di Turpino, e probabilmente avrebbe rigettati que’ racconti, laddove fosse dipeso dalla sua volontà. Ma ogni uomo, per quanto siasi ostinato a leggere poco, conosce, che la buon’anima dell’Arcivescovo Turpino aveva altro in testa, che contare novelle, e che quell’umore bizzarro dello Ariosto gli attribuiva di giorno ciò ch’ei sognava di notte. E di vero se così non fosse stato, come la Eminenza del Cardinale Ippolito da Este dopo avere letto il divino Poema lo avrebbe interrogato dicendo: – Messer Lodovico, da dove avete cavate tante frascherie ? – Domanda, che svelò a un punto il bell’ingegno del Cardinale, e fu la sola ricompensa che Messere Lodovico ricevesse dalla manificentissima e liberalissima Casa d’Este, come dicevano allora i Cortigiani, perchè le Gazzette ufficiali e semi-ufficiali non erano state peranche inventate. Ma quand’anche queste ragioni non mi giovassero, non si creda mica, ch’io non ne abbia in pronto molte altre, e gravissime tutte. Potrei allegare per la prima quella che parmi, ed è la principale di ogni altra, – il piacere mio; poi per seconda, che la presente generazione ha l’anima assetata di tutti que’ libri che si distinguono col nome di Vite , e di Storie . Non ho detto subito Storie , perchè in oggi non è il libro che fa il titolo, ma il titolo il libro; e storia ormai non sappiamo più che cosa ella sia, in grazia di que’ tanti volumi di fatti ricavati all’impazzata da opere oltramontane, e oltramarine, male connessi, male esposti, e peggio narrati: volumi che nulla hanno d’italiano, nè il senno, nè la civiltà, nè la lingua; volumi che la stessa ignoranza guastano, facendola incapace di mai più istruirsi, o, quello ch’è peggio assai, dal proprio mal talento, dalla invidiosa mediocrità, e dalla implacabile presunzione, seminano odio, mietono ignominia, eterno riso dei nemici stranieri. Benedetta sia sempre quella nudità della mente che cerca, e può acconciamente imparare; maladetta la ignoranza presuntuosa e maligna, e cui la fomenta. – Ai tempi di Elisabetta Regina d’Inghilterra costumavano le dame aggirarsi per le vie con un lungo strascico di seta; oggigiorno le anime vanno a processione pel mondo con uno strascico sperticato d’ignoranza ribalda: ogni tempo ha le sue usanze! Elisabetta con una legge suntuaria ridusse gli strascichi di seta a due sole braccia; ma la ignoranza si ride delle leggi, e dei legislatori, e salta quanto vuole saltare, e urla quanto vuole urlare, chè non v’è prigione che la tenga, nè birro che la leghi; e ti misura a passetto quattro tomi o sei di Memorie storiche , o libri altri cotali. Confortiamoci dunque con la speranza che questa sia l’ultima piaga con la quale a Dio piace di toccare l’Italia; confortiamoci, dico, che anche quaggiù un Mare Rosso aspetti il brulichío delle cavallette storiografe , che si avventano alla buona messe, e fanno duro governo dei nostri campi fortunati; confortiamoci, che l’aere di questo cielo benigno un tempo alle imprese gentili, torni mortifero alle piante parasite che ci minacciano. Ai vecchi, che per esser fondo del secolo passato vanno tutti schifosi di posatura, e camminano curvi sotto le stoltezze del nuovo, le ignoranze dell’antico, e le presunzioni di ambedue i secoli, ormai minaccia la malattia, o più giovevole la morte. Ma non tutti tra i vecchi così, e dei giovani quasi nessuno: castissimi nell’anima, di quel senso che si sublima alle immagini del bello dotati, amano istituire gara di grandezza e di gloria, amano esercitarsi nelle lodevoli imprese, e mantenere intatto il sacro deposito del sapere, che i nostri grandi avi ci hanno tramandato. Onore! Onore ai magnanimi, che vivono nelle visioni della immortalità! Il fuoco della scienza, come quello di Vesta, arde scarso, ma eterno, e conservato da mani pudiche.

«Ordiniamo, che Corrado eletto Re dei Romani, erede del Regno di Gerusalemme, dilettissimo figliuolo nostro, ci succeda nell’Impero, ed in qualunque altro dominio in qualsivoglia modo acquistato, particolarmente nel Regno di Sicilia. A lui morto senza figli vogliamo succeda Enrico figliuolo nostro, ed a questo morto pure senza figli succeda Manfredi nostro figliuolo. Dimorando il mentovato Corrado in Lamagna, od in altro luogo fuori del Regno, Manfredi faccia le sue veci in Italia. e specialmente in Sicilia, dandogli pienissima potestà di fare tutti quei provvedimenti che potremmo far noi, come concedere terre, castelli, feudi, dignità, parentele ec. ec.. meno gli antichi demanii del Regno; ed abbiano Corrado ed Ennrico, o eredi loro, le cose che avrà fatte per rate e confermate. Item concediamo, e confermiamo al sopra detto Manfredi il Principato di Taranto, di Porto Rosito fino alla sorgente del fiume Brandano, non meno che le Contee di Montescaglioso, Tricarico e Gravina, le quali da Bari si estendono fino a Palinuro, e da Palinuro fino a Porto Rosito. Gli concediamo inoltre la Contea di Monte Sant’Angiolo con ogni titolo, onore, diritto, borghi, terre, castelli, villate, e pertinenze. In ogni altra possessione dalla Maestà Nostra concessagli nello Impero lo confermiamo, purchè di queste riconosca Corrado per suo sovrano signore ec.»

Questa era la volontà dello Imperatore, come si rileva dalle sue tavole testamentarie riferite da alcuni diligenti Storici, ma tale non era quella di Papa Innocenzio. Abbiamo veduto come la politica dei suoi antecessori consistesse tutta nell’impedire che l’Imperatore di Lamagna avesse dominio in Italia, e poichè non potè attraversare, che per mezzo del matrimonio di Gostanza con Enrico la casa di Svevia ottenesse il Regno di Napoli, ogni pensiero della Corte Romana fu vôlto ad impedire che si consolidasse in mano dell’Imperatore. Innocenzio non aveva altro sentiero a seguire. Quel potente amico vicino che volendo ti distrugge, riesce più pericoloso del nemico che puoi combattere con incerta fortuna. Innocenzio come uomo avveduto, e delle cose del mondo intendentissimo, accese le cupidigie dei Baroni napoletani. Ognuno di questi, sperando farsi signore assoluto, con l’antica lusinga della libertà andava sollevando i popoli, e diceva doversi trucidare il tiranno, e purgare il Regno dai Barbari. Manfredi dal canto suo sollecitava i popoli a rimanersi fedeli, gli onori e le gioie della lealtà esponeva, i suoi nemici ribelli appellava. Sono i nomi di ribelle e di tiranno nelle rivolte di per sè stessi senza significato, e senza rappresentanza morale nella mente dei popoli, ed aspettano la loro spiegazione dall’esito delle battaglie. Allora vedendo gl’imprigionamenti, gli esilii, le teste tagliate e confitte su pei pali, per quell’antica fratellanza, che corre nei loro cervelli tra pena e delitto, senza cercare più oltre danno il torto a chi è vinto. Il nome di riprovazione rimane a colui che ha dovuto cedere, l’altro ha purificato la sua infamia nella vittoria… poi la vittoria muta, chè il chiodo alla ruota della Fortuna nessuno pose fin qui, nè mai porrà, e con la vittoria mutano i giudizii degli uomini. Vinse Manfredi, e fu giusto; i Baroni vinti, e però scellerati. Alla morte dello Imperatore il Regno da un lato all’altro si ribellò, e Manfredi in meno di un anno lo ricompose in pace, ed eccettuate le città di Napoli e di Capua, tutte le sottomise. Fu quest›eroe figlio naturale di Federigo, e di una Marchesa Lancia di Lombardia, ma come si ricava dal suo testamento, avanti di morire legittimato. Bellissimo di corpo, di biondi capelli, ed occhi azzurri, come tutti gli altri della famiglia di Svevia; era la sua persona maestosa, il portamento gentile; di costumi liberale e cortese: sortì dalla natura ingegno maraviglioso, conciossiachè egli sapesse poetare a modo dei Trovatori, suonare, e nessuno degli adornamenti cavallereschi ignorò: del pari che suo padre Federigo parlò speditamente diverse lingue, e fu intendente di cose naturali, come si rileva dai libri su la Caccia , che di lui ci rimangono: cupamente ambizioso, stimò ogni mezzo, purchè conducente al suo scopo, lodevole: capace di calcolare ogni delitto e commetterlo, e celarne il rimorso: simulatore e dissimulatore destrissimo, sprezzatore degli uomini e di Dio, nel mentre che con istrano contrasto si mostrò sempre umano, magnanimo, e perdonatore generoso. La sua anima fu grande, ma tenebrosa; nessuno uomo al mondo ha mai tanto somigliato a Lucifero, allorchè ribellando parte del cielo al suo Signore ne portò la fronte in sempiterno solcata dal fulmine divino.

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