Francesco Domenico - La battaglia di Benvenuto

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Il Papa, disposto di procedere affatto nemico contro di Federigo, convoca un Concilio a Lione per la festa di San Giovanni. Nel 28 giugno del 1245 ne fu tenuta la prima sessione nel Convento di San Giusto, assistendovi centoquaranta Vescovi. Cominciò Innocenzio esponendo i mali della Chiesa; la Russia, la Polonia, e parte della Ungheria, dai Tartari devastate; Gerusalemme presa dai Carismieni. Costantinopoli dai Vataci minacciata: tutti questi mali attribuisce a Federigo; di spergiuro, di empietà, e di eresia lo accusa. Taddeo da Suessa Legato imperiale, vedendo il Cancelliere Piero delle Vigne non levarsi a difendere il suo signore, sorge arditamente, scusa Federigo, e lo dimostra prontissimo a combattere contro gl’Infedeli. Innocenzio chiede sicurtà; Taddeo nomina i Re di Francia, e d’Inghilterra; il Papa gli ricusa. Nella seconda sessione Taddeo con apprestata orazione difende Federigo; qualifica per parte del suo signore, menzognero il Vescovo di Catania, che ripeteva le accuse del Pontefice, ed annunzia che lo Imperatore sta per comparire di per sè stesso al Concilio. Il Papa vuol pronunziare la sentenza; gli Ambasciatori inglese e francese lo costringono a concedere le proroghe per dodici giorni. Taddeo, tentati gli animi dei Cardinali, e trovatili tutti prevenuti in favore d’Innocenzio, avvisa Federigo, che si era avanzato fino a Torino, che non si affatichi di andare più oltre; essere la causa sua oggimai terminata. Sorgeva il giorno 17 di luglio, e col giorno si apriva la terza sessione. Si presentava Taddeo protestando incompleto il numero dei Vescovi, e perciò, dove fosse pronunziata sentenza, fino di allora frapponeva appello a più completo Concilio. Ciò nondimeno ributtate Innocenzio le proteste, pronunzia la sentenza contro Federigo come misleale vassallo della Chiesa, violatore dei patti giurati, sacrilego, eretico, e finalmente, secondo lo usato costume, chiudeva così: «Noi dunque che sebbene indegni teniamo luogo del nostro Signore Gesù Cristo; Noi, cui furono volte le parole di San Pietro Apostolo, tutto quello che avrete legato su la terra sarà legato in cielo ; Noi, co’ Cardinali nostri fratelli, e il sacro Sinodo, deliberammo, essersi questo Principe reso indegno dello Impero, degli onori, e delle dignità. Dio pei suoi misfatti lo respinge, nè soffre ch’ei sia più Imperatore. Noi manifestiamo alla gente, siccome è legato dai suoi peccati, respinto da Dio, privato dal Signore di ogni dignità, e di queste cose anche con la presente sentenza lo priviamo; quelli che gli sono tenuti per giuramento sciogliamo; anzi per nostra autorità di più oltre obbedirgli vietiamo, non pure come ad Imperatore, ma benanche in qualunque modo pretendesse obbedienza, e lo anatema nostro fino di adesso decretiamo contro loro, che in qualunque modo, e sotto qualunque pretesto, lo sovvenissero ec.»

Pronunziata la sentenza, i Cardinali rovesciarono le candele, che tenevano accese, in atto di esecrazione; Taddeo da Suessa fuggì dal Concilio, percuotendosi il petto, ed esclamando «Giorno d’ira è questo! giorno di sventura e di sangue!» Giunge le novella a Federigo, che furiosamente levatosi in piè grida: «Chi è questo Papa che mi ha ributtato dal suo Sinodo? Chi è colui, che vuole toccar la mia corona su la mia testa? Chi è colui che lo può? Dove sono i miei gioielli? Presto, recatemi i miei gioielli.» Glieli recavano: aperta una cassetta, dove teneva diverse corone, ne tolse una, e se la pose in capo dicendo: «Oh! ella non è per anche perduta; nè Papa, nè Sinodo, me l’hanno tolta, nè me la torranno senza che sangue ne costi.»

Dopo questa sentenza Federigo non ebbe più un’ora di bene. Innocenzio spedì lettere circolari per ribellargli la Sicilia; tentò farlo morire per opera di congiura ordita dai figli del Gran Giustiziere Mora, dai San Severino, e dai Fasanella: andato a vuoto il tentativo, non cessò dalle insidie, anzi viepiù accendendosi in quelle istigò Piero delle Vigne, rimasto trascurato in corte dopo il Concilio, a ministrargli il veleno. Giaceva Federigo leggermente ammalato, allorchè Piero si dispose all’opera di perfidia: fattosi alla camera dove era l’Imperatore, lo confortò a bere certo liquore composto da un suo medico, e gli affermava che ne sarebbe tosto guarito. Federigo di tutto già consapevole assentiva; giunto che vide il medico, si volse a Piero e gli disse: «Piero, è questa la bevanda che l’amico porge allo amico ammalato?» Poi con aspetto feroce ordinava al medico gli desse la tazza; questi pauroso della vita finge sdrucciolare, cade, e la rovescia per terra: poco gli giovava il consiglio; lo sparso liquore fu verificato per veleno, ond’egli n’ebbe la testa mozza. Piero poi, privato degli occhi, e rinchiuso dentro un monastero, dà del capo nel muro, e miseramente finisce i suoi giorni.

Federigo, considerando sollevarglisi attorno tanti odii, timoroso di sè, chiedeva pace. San Luigi e la Regina Bianca intercedevano. Innocenzio per questa volta non ricusò; ma per condizioni di pace ordinava, che lo Impero di Germania concedesse a Corrado, il Regno di Napoli ad Enrico, entrambi suoi figli; ed egli si recasse a Gerusalemme. Mentre che questi accordi si trattavano, giunse la novella in corte della ribellione di Parma. Federigo, messa ogni altra cura da parte, intese con tutto l’animo a ricuperarla. Ell’era città importantissima per lui, perchè apriva comunicazione con Verona, Germania, e gli Stati di Ezzelino da Romano, potente capo dei Ghibellini in Lombardia. Accorso con ogni suo sforzo, la cinge di soldati, ordina guardarsi diligentemente le vie onde nessuna cosa potesse entrare, od uscire; poi innalzato un ceppo sopra un monticello poco distante dalla città, quivi ordina che giornalmente a vista degli assediati recidansi le teste di quattro cittadini parmigiani.

Sebbene tessendo la storia dei figli di Eva, veniamo necessariamente, e con infinito nostro dolore, a raccontare una serie di delitti, a Dio non piaccia, che per noi sieno celate le poche azioni che possono ridondare in onore di quelli. I Pavesi, che noi vedemmo costanti, ostinati odiatori dei Guelfi, non sostennero tanto scempio, e notificarono allo Imperatore che cessasse, altramente si partirebbero, imperciocchè essi erano venuti a fare da soldati, non già da carnefici.

L’Imperatore, quasi per anticipare quello che aveva in mente eseguire, ordinò si fabbricasse una città, alla quale pose nome Vittoria , per trasportarvi, quando che fosse, la gente di Parma espugnata, ed intanto disegnava di prendervi i quartieri da inverno. Correva il giorno diciottesimo di febbraio 1248, allorchè i Parmigiani, avendo saputo che Federigo si era allontanato con assai gente per cacciare col falcone, si disposero tentare disperata sortita. Non fu per questa volta la fortuna contraria ai generosi. Gl’Imperiali, assaltati allo improvviso, dopo leggera resistenza si danno alla fuga; ne segue strage infinita. Taddeo da Suessa, e il Marchese Lancia, caddero morti sul campo, tentando ritenere i fuggitivi: inestimabile tesoro venne in potere dei vinciiori, e la stessa corona imperiale. Federigo ritornava adesso tutto umile ad implorare la pace con Innocenzio, offrendo passare in Terra Santa; non si ascoltava. Allora vide quello che doveva considerare innanzi, cioè, che fino a tanto che ei fosse stato perdente, il Papa non si sarebbe piegato a meno severi consigli. Si volse dunque in Toscana, ed inasprito pei recenti disastri, ne uscì tutto sanguinoso di nefandi omicidii. Superato il castello di Capraia, dov’erano riparati gran parte di Guelfi, tutti fece annegare: al solo Zingane Buondelmonti per odioso privilegio (e stimò fargli favore) ordinò che si strappassero gli occhi, e si gittasse nelle prigioni di Puglia. Ma quasi che di ogni misfatto dovesse immediatamente pagare la pena, poco tempo dopo, il suo figlio Enzo combattendo a Fossalta contro i Bolognesi fu vinto e fatto prigioniero; nè mai in séguito per prego, o per minaccia, dal Comune di Bologna lasciato partire, e realmente trattato, visse ventidue anni in quella città. Federigo, tentato nuovo motivo per la pace, e nuovamente respinto, se ne andò in Puglia a macchinare nuove imprese, ed a prepararvisi, allorchè la morte lo giunse a Ferentino il 13 decembre 1230. Innocenzio così annunziava al mondo la sua morte: «Si rallegrino i cieli, esulti la terra, che il fulmine, di cui Dio da gran tempo ci minacciava, si è convertito con la morte di un uomo in freschi zeffiri, ed in limpide rugiade.»

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