Emilio Salgari - La crociera della Tuonante
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La corvetta, spinta da un buon vento, scendeva verso il sud abbastanza rapidamente, quantunque mutilata, e nessun pericolo per il momento la minacciava, poiché la squadra di lord Howe, vigorosamente incalzata in coda dai brigantini dei corsari delle Bermude, quantunque formidabile, aveva preferito appoggiare verso la costa americana per rifugiarsi in qualche porto amico.
Il pericolo vero stava in Boston dove gl’Inglesi, come abbiamo detto, avevano lasciato buon numero di navi, per avvertire le veliere provenienti dall’Europa della caduta della città ed evitare loro di cadere dentro una trappola irta di cannoni; ché se la guarnigione se n’era andata, gli Americani, temendo sempre un colpo di mano, avevano occupati i canali e le isole ed avevano soprattutto formidabilmente armato il forte Moultrie con trentasei grossi pezzi, per impedire alle navi inglesi di entrare nella baia.
Già avevano saputo dai loro corsari, i quali vigilavano l’Atlantico, che una squadra, comandata dall’ammiraglio Peter-Parker e dal conte di Corwallis, aveva lasciato i porti dell’Irlanda con un grosso contingente di montanari scozzesi, uomini assai valorosi e molto temuti dai yankees. Ma non era quello il momento di darsene pensiero.
«La Tuonante zoppica, ma va,» aveva detto Testa di Pietra al secondo di bordo. «Che cosa si può desiderare di più, dopo essere usciti da un tale combattimento?»
Ormai la costa americana era in vista, e spiccava nettamente sul luminoso orizzonte, colle sue alture verdeggianti e i suoi profondi canali esalanti febbre gialla.
La notte era scesa, quando Testa di Pietra, sempre in guardia sul castello di prora, avvertì una gran luce che si proiettava verso il cielo, e quasi nello stesso momento il secondo di bordo segnalava uno dei fari di Boston.
«Corpo di tutti i campanili della Bretagna!» esclamò il vecchio mastro, masticandosi i baffi grigi. «Non è ancora finita la lotta a Boston? Che cosa vogliono dunque gl’Inglesi? Delle altre legnate? Hanno fatto male a lasciarli andare. Si sono forse dimenticati che noi avevamo qui un carnefice.»
Il Baronetto, prontamente avvertito, era salito in coperta ed aveva puntato un cannocchiale verso le bocche di Boston.
«Sapreste dirmi che cosa brucia laggiù, signor Howard?» disse al secondo. «La città forse?»
«No: la luce sarebbe più intensa. È il castello Guglielmo che se ne va. Mi avevano già detto che lord Howe, temendo un attacco da parte dei nostri, aveva dato ordine di smantellarlo e incendiarlo. Mi rincresce per le sue artiglierie che gl’Inglesi avranno rovesciate nel canale.»
In quel momento un forte colpo di vento fece piegare la corvetta sul tribordo.
«Giù le vele alte del trinchetto! Non voglio perdere una seconda ala,» comandò il Corsaro.
L’Atlantico, fin allora tranquillo, cominciava ad agitarsi e a brontolare cupamente. Da levante di quando in quando giungevano grosse ondate irte di schiuma, le quali si rompevano muggendo contro i fianchi della nave. Testa di Pietra, dopo aver lanciato una dozzina di gabbieri a chiudere i pappafichi ed i contrappappafichi e terzarolare la gran gabbia, era salito sul castello di prora, sedendosi a cavalcioni su uno dei due pezzi da caccia. Manco a dirlo, Piccolo Flocco lo aveva subito raggiunto, poiché quei due lupi di mare, se brontolavano sempre, non potevano star dieci minuti senza vedersi.
«Che cosa cerchi, Testa di Pietra?» chiese il giovane, vedendo il mastro curvarsi innanzi.
«Foro le tenebre,» rispose. «Noi Bretoni abbiamo occhi che sfidano i più potenti cannocchiali.»
«Bum!… Tu spari grosso,» esclamò il giovine.
«Chi prima di tutti ha avvertito quel fuoco verso Boston?»
«Tu; questo è vero. E continua l’incendio? Quanto a me ti confesso che non scorgo nulla.»
«I Gallesi son mezzo bretoni, ma bretoni inglesi, ed è perciò che non valgono quelli francesi,» rispose con voce e con gesto gravi il mastro. «Ricordatelo, monello.»
«Dimmi allora che cosa vedi adesso.»
«Tenebre e tenebre.»
«Quelle le vedo anch’io senza essere un Bretone intero,» rispose Piccolo Flocco, scoppiando in una risata.
«Ma non saresti capace di guidare la Tuonante attraverso i canali di Boston che io già intravedo.»
«Com’è possibile con questo buio d’inferno?»
«Eppure!…» ripeté il Bretone, alzandosi.
«E dove andremo a rifugiarci una volta entrati nella baia, se pure le navi lasciatevi da lord Howe ci permetteranno di bagnare il nostro tagliamare in quelle acque?»
«Sotto la protezione delle artiglierie del forte di Moultrie. Hanno fatto testa grossa là dentro gli Americani, e le navi inglesi che verranno dall’Europa si romperanno le alberature contro quell’ostacolo: te lo dico io.»
«E con questa notte buia, il colonnello, che suppongo comandi il forte eretto in onor suo, non ci prenderà a cannonate?»
«Non ci mancherebbe altro!… Credi tu che il comandante nostro non abbia già prese le sue precauzioni nel caso d’un ritorno forzato con tempo oscuro? Si lanciano tre razzi verdi, e tutti i pezzi rimangono muti… Oh! la risacca rompe dentro i canali di Boston. Avremo da sudare.»
Era una fortuna che l’Atlantico non fosse tranquillo e che grosse ondate si formassero, perché le navi inglesi, con una notte così cupa e tempestosa, non avrebbero certamente lasciati i loro sicuri ancoraggi. Ma era pur vero che la corvetta, mancante della sua maestra, avrebbe potuto finir male con una bordata e insabbiarsi su uno dei numerosi banchi ingombranti le entrate della baia, formati dai detriti che la riviera della Mistica trascina in gran copia durante gli acquazzoni estivi ed autunnali. Invece, guidata dal suo miglior timoniere e sorvegliata dal Baronetto, dal signor Howard e da Testa di Pietra, malgrado i frequenti colpi di vento, che mettevano in serio pericolo il pennone issato al posto della maestra, e le fiancate dei cavalloni, continuava la sua rotta verso il sud, tenendosi ad una mezza dozzina di miglia dalla costa americana, visibilissima sotto la luce dei lampi, i quali si succedevano senza interruzione. Metà dell’equipaggio era in coperta, attento, vigilante, pronto a qualunque disperata manovra; l’altra metà si era cacciato nelle batterie dietro i cannoni, potendo darsi che da un momento all’altro qualche volteggiatore inglese comparisse.
Verso la mezzanotte la corvetta era attraverso il canale battuto dal forte Moultrie, il quale era stato eretto sull’isolotto chiamato Sullivan, lontano sei miglia da quella punta di terra che veniva formata dalla congiunzione dei due fiumi Ashley e Cooper. Le onde dell’Atlantico, le quali erano andate ingrossando, si rovesciavano furiosamente dentro le due coste, comprimendosi con grave pericolo. Un colpo di timone mal dato, una manovra ritardata, anche di pochi secondi, e la corvetta era perduta.
Il Corsaro aveva imboccato il portavoce, e i suoi comandi si succedevano limpidi, nonostante le raffiche che si abbattevano sull’attrezzatura, sibilando od ululando. Testa di Pietra, tornato sul castello di prora con Piccolo Flocco e il carnefice di Boston, diventato ormai un altro suo inseparabile amico, aguzzava sempre gli sguardi. Di quando in quando la sua voce, robusta come quella di un vecchio toro, si univa ai comandi del Baronetto. Segnalava ai timonieri la rotta con tale precisione, che Piccolo Flocco non poteva trattenersi dal dire:
«Decisamente questo demonio d’un Bretone vede meglio dei gatti anche di notte! Già, è di Batz!…»
Ad un tratto un comando secco echeggiò:
«Bordate sopravvento!»
La corvetta, che lottava con le onde, girò quasi di colpo su sé stessa e filò lungo le coste dell’isola Sullivan.
«I razzi! I razzi!» gridò il Corsaro.
Testa di Pietra, prevedendo quell’ordine, aveva portato in coperta una cassetta di ferro.
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