Emilio Salgari - Le meraiglie del Duemila
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Quando giunsero sulla cima della rupe il sole stava per tramontare in un oceano di fuoco.
Tutti e tre s’erano fermati, guardando l’oceano che fiammeggiava sotto i riflessi del tramonto e che s’increspava leggermente sotto la brezza della sera.
In lontananza un grande piroscafo fumava, dirigendosi verso la costa americana; lungo le scogliere dell’isola alcune barche pescherecce s’avanzavano dolcemente, tornando verso il porto della piccola borgata; alla base della rupe le onde s’infrangevano rompendo il silenzio che regnava sull’immenso oceano. I tre uomini tacevano: il notaio sembrava profondamente commosso; Brandok e Toby un po’ preoccupati. Rimasero così parecchi minuti, guardando ora le barche ed ora il sole che pareva si tuffasse in acqua; poi ad un tratto il dottore si scosse, dicendo:
«Non ti penti della parola data, James?».
«No» rispose Brandok, con voce calma.
«Anche se non dovessimo risvegliarci mai più?»
«Nemmeno.»
«Signor Max, salutiamoci ed abbracciamoci, poiché non ci rivedremo mai più, a meno di un miracolo.»
«Bisognerebbe che campassi centoquarant’anni, una età impossibile» disse il notaio, sospirando. «Io morrò, mentre voi risusciterete.»
«Un abbraccio, amico, e lasciamoci.»
Il signor Max, vivamente commosso, cogli occhi umidi, si strinse fra le braccia il dottore, tenendoselo per qualche momento sul petto.
«Addio, signor Brandok» disse poi, con voce rotta, porgendogli la mano. «Vi auguro di tornare in vita e di ricordarvi di me.»
«Ve lo promettiamo» rispose il giovane. «Addio, signor Max: noi andiamo a dormire.»
Il notaio s’allontanò, volgendosi più volte per un gesto d’addio; poi scomparve pel sentiero che conduceva alla base della rupe dove aveva collocato una grossa cartuccia di dinamite, per distruggerlo.
«Vieni James» disse Toby, quando furono soli. «Guarda un’ultima volta l’oceano.»
«L’ho guardato abbastanza, e poi non lo troveremo certo cambiato, se risusciteremo.»
Aprirono la porticina ed entrarono nella loro tomba, che gli ultimi raggi di sole illuminavano a sufficienza, facendo scintillare la cupoletta di vetro.
Toby prese dalla mensola una bottiglia e due bicchieri e la stappò.
«Un buon bicchiere di champagne» disse, versando lo spumeggiante nettare. «Alla nostra risurrezione, James!»
«O alla nostra morte, che per me sarà lo stesso» rispose il giovine, forzandosi di sorridere. «Almeno lo spleen non mi tormenterà più.»
Vuotarono d’un fiato i bicchieri, poi il dottore chiuse in un plico alcuni documenti che collocò entro una cassetta di metallo.
«Che cosa fai, Toby?» chiese Brandok.
«Qui dentro vi sono le fiale contenenti il misterioso liquido che dovrà ridarci la vita, e insieme la ricetta che insegnerà come dovranno servirsene coloro che verranno a risvegliarci.»
«Hai finito?»
«Sì. Un altro bicchiere.»
«Sia» rispose Brandok.
Vuotarono la bottiglia, poi il dottore sturò una fiala ed empì due piccole tazze. Era un liquore rossastro, un po’ denso, che aveva un profumo speciale.
«Bevi» disse, porgendo una delle tazze a Brandok.
«Cos’è?»
«Il narcotico che ci addormenterà, o meglio che sospenderà la nostra vita e che impedirà alle nostre carni di corrompersi.»
Il giovane prese la tazza con mano ferma, guardò il liquido in trasparenza, poi lo tracannò senza che un muscolo del suo viso avesse trasalito.
«È un po’ amaro, però non è cattivo» disse. «Ah! che freddo, Toby. Mi pare di avere un blocco di ghiaccio al posto del cuore.»
«Non è nulla, e poi durerà poco. Gettati sul letto e copriti.»
Mentre Brandok obbediva, il dottore bevve anch’egli la sua tazza, poi s’accostò barcollando ad un vaso di terra che si trovava in un angolo ed afferrato un martello che si trovava li presso, con un colpo vigoroso ne spezzò il coperchio, poi raggiunse frettolosamente il compagno.
Una temperatura da Siberia aveva invaso la stanza. Pareva che da quel vaso misterioso uscisse una corrente d’aria gelata, come quella che spira nelle regioni polari.
Il dottore guardò Brandok: il giovane non dava più segno di vita. Pareva che la morte l’avesse colto di colpo.
«Fra… cento… anni…» ebbe appena il tempo di balbettare il dottore, e stramazzò a fianco dell’amico. Nello stesso momento l’ultimo raggio di sole si spegneva e le prime ombre della notte scendevano sul sepolcreto.
UNA RISURREZIONE MIRACOLOSA
Una mattina degli ultimi giorni di settembre del 2003, tre uomini salivano lentamente lo scoglio di Retz, aiutandosi l’un l’altro per superare le rocce, non essendovi alcuna traccia di sentiero.
Il primo era un uomo piuttosto attempato, fra i cinquanta e i sessant’anni, eppure ancora assai vigoroso, senza barba e senza baffi, le braccia e le gambe lunghissime, perfino troppo in proporzione del tronco, e gli occhi molto dilatati e quasi bianchi.
Gli altri due erano più giovani di qualche dozzina d’anni, anch’essi bene sviluppati, con muscolature possenti e cogli occhi egualmente bianchi e smorti.
In tutti e tre poi si osservava uno sviluppo assolutamente straordinario della testa e specialmente della fronte.
I loro vestiti erano d’una certa stoffa color caffè chiaro, che pareva una seta, e consistevano in casacche larghissime, e in calzoni corti ed ampi, fermati sotto il ginocchio.
Giunti sull’orlo superiore dello scoglio, si erano fermati dinanzi ad un’alta cancellata di ferro arrugginito e corroso dai sali marini che racchiudeva una piccola costruzione di forma circolare, sormontata da una cupoletta di vetro.
Una lastra di metallo situata in cima ad un palo, portava la seguente scritta, ancora abbastanza visibile: Proprietà privata del dottor Toby Holker.
«Ci siamo» aveva detto l’uomo attempato, levandosi da una tasca una chiave vecchissima, d’una forma speciale, e una carta ingiallita. «Che belle chiavi si usavano cent’anni fa!»
«E sperate di farlo risuscitare il vostro antenato signor Holker?» domandò uno dei due che lo accompagnavano.
«Almeno le sue ossa le troveremo, ed anche quelle del suo amico» rispose il signor Holker.
«Ed i milioni, giacché voi siete l’unico erede.»
«È vero, signor notaio.»
«Potrete aprire?»
«Proviamo» rispose il signor Holker.
Introdusse la chiave nella toppa e, dopo qualche sforzo, fece scattare il chiavistello.
«Non fabbricavano male a quei tempi, i fabbri,» disse, spingendo il cancello. «Non credevo che dopo cent’anni le serrature funzionassero ancora.»
Il piccolo recinto era coperto di ginestre e di sterpi e di cumuli di erbe secche. Si capiva che nessuno, da moltissimo tempo, era entrato colà.
«Vediamo» disse Holker, aprendosi il passo fra gli sterpi.
S’accostò, non senza provare una certa emozione, alla piccola costruzione e, rizzandosi quanto era lungo, appoggiò il viso alla cupoletta di vetro.
Subito un grido gli sfuggì.
«È incredibile! Sono là ambedue e mi sembrano intatti! Che il mio antenato sia proprio riuscito a scoprire un filtro così meraviglioso da poter sospendere la vita per cent’anni?»
I suoi due compagni, avevano gettato uno sguardo attraverso i vetri, e anch’essi non avevano potuto frenare un grido di stupore.
«Sono là! Sono là!»
«E pare che dormano» disse Holker, che era in preda ad una viva emozione.
«Signor Holker, vi sareste ingannato?» chiese il notaio.
«Non so che dire; ora ho una lontana speranza di poter rivedere vivo il mio antenato.»
«Entriamo, signore. Avete la chiave del sepolcreto?»
«Sì; non entriamo subito, però.»
«Perché?…»
«Il mio antenato ha lasciato scritto che si lasci prima la porta aperta per qualche minuto.»
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