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Francesco Domenico: Lo assedio di Roma

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Francesco Domenico Lo assedio di Roma

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Insomma, come la donna adultera della scrittura, questa setta empia si frega i denti e dice: – io non ho peccato ! – All’opposto, sfrontata e bugiarda dopo avere seguito da lontano il Lione del popolo e dopo essersi, sozzo Jakallo, pasciuta dei suoi rilievi, montata su i trampoli, strilla: – - io feci, io fui .

Sembra impossibile a qual punto d’insania ella trascorra, perocchè adesso senza impeto alla scoperta ti affermi: – tarlo della Monarchia, io m’imposi; trovo il mio conto a roderla, e con lei mi sto, nè fie che me ne diparta finchè io non miri il popolo in procinto di empire le città di sangue con battaglia cittadina.

Il popolo ode queste sentenze uscire dalla bocca di coloro, che gli si professavano amici; leva gli occhi lenti e tardi a guardarli; li nota e ruguma sopra i tempi passati, e gli avvenire.

E a noi, che gli parliamo parole di speranza, e gli diciamo: «non badare a cotesti insensati, è una eclissi che passa, una nuvola traverso la faccia del sole; ripiglieremo la via interrotta, cesseranno le mostre sceniche, i giorni delle vere battaglie torneranno, i generosi sul campo daranno e riceveranno perdono; – il popolo brontola cupo, e scorrubbiato: – via di qua poeti, perchè storcerete voi sempre il senso alle parole? E che prò trovate a nascondere la realtà delle cose? Lo hanno dichiarato espresso, bisogna combattere, e vincere, allora e solamente allora ci daranno ragione; essi hanno torto, e lo sentono, ma la legge adoperano come della lacciaia i butteri; chi preso tentenna, sente stringersi il collo. Per quanto amore portate a Dio lasciatemi stare; io non vi chiamerò perfidi ingannatori, ma ingannatori siete perchè vi ostinate a volere essere ingannati. Ormai, dinanzi al popolo la setta empia mette due vie, quella di buttarsi sopra la terra e confidarsi nel tempo che consuma il tiranno e lo schiavo, i re, e i popoli, che logora le catene, e i polsi, i flagelli, e le schiene, appo cui tutto è foglia che disperde il verno; il tempo che ogni cosa travolge dentro ai sepolcri. Ah! poichè il sommo Creatore non volle impedire alla ingiustizia di ramificare le sue potenti radici sopra la terra a sollievo di tanta amarezza mandò la morte. – E’ pare insensato, ma io popolo, affermo solennemente e predico, che senza la morte non potrei più sopportare la vita....»

Ecco che ci risponde il popolo adesso che gli favelliamo liberi in tempi che salutano di libertà; prima, le nostre parole scendevano nel suo cuore, auspici la persuasione, e la speranza; adesso la rabbia le respinge pari al demonio che sbatte le porte in faccia all’angiolo, nella divina Commedia. E l’ empia setta presume conoscere il popolo, e si vanta tenergli le mani nei capelli. «Esagerazioni! ella esclama, qualcheduno di coloro che a prezzo di vita acquistarono un regno alla Italia morì di fame; forse tal’altro per non patire vergogna portò contro di sè le mani violente; le sono cose che tutto dì accadono, nè per questo se ne «turbano l’ordine delle stagioni nell’anno, nè lo appetito a noi.»

Oh! dateci, ridateci i nostri gesuiti, e i vecchi sbirri, e le vecchie manette; dateci tutto, tutto, a patto che ci si ridia il popolo che tremava di odio contro lo straniero, il tempo che al cittadino italiano preso in sospetto di odiare meno l’oppressore della Patria era mestieri ripararsi in istranie contrade, la stagione nella quale un’uomo perchè aveva accettato ufficio da principe assoluto trovò chiusi i cuori e le porte dei suoi amici, la carcere dove si poteva serivere; il Papa vuolsi aborrire per tre tiranni però che porti tre corone sul capo.

Non importa, però che l’uomo sia quasi un sasso nella mano del destino e gli tocchi andare dove si sente sbalestrato – e Nemesi duri, la quale vigila eterna; il sonno fugge dagli occhi suoi senza palpebre, il braccio di lei si agita senza posa a percotere le colpe dei mortali: cotesta è gelosa divinità e terribile, dov’ella spinge bisogna andare; conduce i volenti, i repugnanti strascina.

È cosa naturale che ogni generazione si consideri la predestinata a compire l’opera del perfezionamento dell’uomo; bene provvide la natura nello infondere dentro l’individuo la baldanza di essere il prescelto a porre l’ultimo sasso all’edifizio; – ma quando l›opera gli si aumenta alla stregua del travaglio, e a mano a mano che sale gli si dilata l›orizzonte davanti agli occhi, allora comprende, generazione o individuo, se essere particola della somma Intelligenza sì, ma particola finita nella sua specie, ma frammento di opera che andrà compita in capo ai secoli, e forse mai.

Perchè, quando mancassero le necessità del perfezionarsi, cesserebbero a un punto le cause del vivere, e la umanità priva di passioni rimarrebbe immobile, pari alla nave sorpresa da calma perpetua con le vele pendenti, a infracidirsi sopra il mare morto.

Si contentino dunque lo creature umane di formare parte dello edifizio fatale: ognuna fie lodata pel compito, che le venne imposto, e ch›ella valorosamente condusse; e di tanto ringrazi l› Eterno architetto che con gli occhi mortali non potrà vedere il termine della opera manifesta ed intera, le si presenta agli occhi dello intelletto: dove il corpo non giunge, l’anima vola, e se ne appaga. Se poi taluna, o non vede o rifiuta vedere, è colpa di natura se l’uccello non usa l’ale?

Vi hanno tre modi di considerare il bene, e tre modi altresì di praticarlo; quanto a vederli basta un baleno della favilla divina chiusa dentro il cranio dell’uomo; circa a praticarli bisogna che la intera umanità acconsenta; io voglio dire lo assoluto, il teoretico, e il pratico; l’assoluto sta lontano lontano quasi al lato a Dio; arduo a conseguirsi, sarà la soglia a piè della quale l’ira, la cupidità, le sventure e la morte lasceranno l’uomo; sarà la porta oltre la quale la creatura umana sublimata a natura angelica assumerà forma e concetto di spirito, il teoretico, comecchè meno in alto, tuttavia apparisce sempre sublime così, che l’uomo dispera di conseguirlo, e pure lo raggiunge non già perchè egli si abbassi verso il pratico, ma si all’opposto perchè il pratico si solleva fino a lui; il pratico rasenta la terra dove lo tirano volgare istinto, voracità, ingordigia, e mente bestiale, e paure; – questo, di verme si muta in farfalla e s’indirizza in su. Se tra lo assoluto e il pratico non intercedesse il teoretico, l’uomo sbigottirebbe, non gli si parando altra via che rimanere lumbrico, o trasformarsi in angiolo.

Dall’arrogante prosunzione della setta dei Moderati, oggi a tutto pasto, si bocia: pratico! pratico ! – E che sapete voi pratico che sia, e dove arrivi, e come si amministri? Pratico, per voi consiste nel lasciare la società nella fossa dentro la quale si trova; e non alterare le sue condizioni se non in quanto ciò giovi agl’interessi che hanno gittate le loro radici fin dentro le viscere di quella. Gl’interessi oltre i propri di casa e di bottega, sono interessi di eserciti permanenti, di giudici, di preti, di giandarmi, di gabellotti, di gente che invece di produrre consuma… moltitudine d’ostriche aggrappate sul corpo alla balena… o piuttosto male pediculare della umanità.

Questi interessi, rinterzati insieme, rabbiosi ed operosi, digrignanti i denti come belve, che si sentano insidiato il pasto, deviano sovente la umanità dal diritto cammino, abbindolandola con errori, empiendola di paure, in mille guise tribolandola, sicchè, da prima, sgomenta, ella si accoscia, poi furiosa, si avventa, e mette a sua posta paura, chè comparisce ella pure, ed è belva; lacera a destra e a manca; la libertà fugge coprendosi per vergogna la faccia.

Il sangue marcisce i fondamenti ai troni, non feconda la pianta della Libertà; questo la esperienza insegnò, speriamo gli uomini l’abbiano appreso. I tiranni è bene che lo ignorino.

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