Adolfo Albertazzi - In faccia al destino

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– Che fa lei qui? – mi chiese Anna Melvi.

– Studio – risposi, per dir qualche cosa.

Mi fissò per un attimo e disse:

– Ne imparerà delle belle!

Avrei voluto pungerla, ferirla quella ragazzaccia sguaiata; ma Ortensia la chiamò. Salivano da Eugenia. Quando rientrarono, Ortensia tornò subito a me dicendomi, felice:

– La mamma dorme… Vedesse! È queta queta.

Ma fin quella tenerezza filiale mi amareggiava! Senza badare che il mio turbamento, di una tristezza oscura e profonda, era pur esso indizio di risveglio psichico, io, di fronte alla affettuosa espansione della giovinetta, ebbi vergogna di me e provai il bisogno di dissimulare. Finalmente cercai parole che sembrassero buone.

– Dunque presto la porteremo in giardino, tua madre?

– Sì! E lei starà sempre con noi? Non scapperà più? Non sarà più stanco e nelle nuvole? Terrà compagnia alla mamma?

Certo – risposi appena.

Ortensia mi ringraziò e nel ringraziarmi ella mi guardò quasi dicesse: «Lei crede di comprendere tutto il bene ch'io voglio a mia madre. Ma io gliene voglio di più, molto di più!»

Come dopo un riposo la signora Fulgosi ebbe trovato l'andare del dancing , l'ingegner venne a prendere Ortensia. Su di lei raccolsi ora la mia attenzione quasi sperando da lei sola una commozione diversa e benefica. Ancora ella procedeva semplice e vaga, pur quando la nuova danza imprimeva una consapevole mollezza e cadenze a riprese leggiadre fino alla leziosaggine; e nei trapassi violenti al ritorno vorticoso, trascorreva leggera e composta, liberandosi con spontanea agilità dal contatto terreno.

Una voce dietro a me susurrò:

– E charmante quella bambina!

Aveva parlato il cavalier Fulgosi.

– Che pezzo di carne! – disse invece il signor Learchi padre, alludendo ad Anna, che si rapiva Pieruccio.

– Anna è più coquette – giudicava il cavaliere. – E Learchi:

– Ha più grazia di Dio addosso. A quel che pare, suo figlio in queste partite è della mia opinione.

– Prime armi! – fe' contento il mondano genitore.

Io continuavo a considerare Ortensia.

Alta, snella, bionda. I copiosi e fini capelli non erano di un biondo aureo, ma acquistavano riflessi d'oro a ogni luce; le linee del volto erano già in armonia così viva che essa poteva forse scemare, non perfezionarsi nella piena fioritura della giovinezza. Gli occhi aveva strani per un colore nè cilestre nè verde, e ombrati da palpebre lunghe; e sotto agli occhi due archi pallidi ma lievi lievi sarebbero stati segni di mestizia a chi l'avesse vista riposata e silenziosa: se non che era un po' difficile vedere Ortensia riposata e silenziosa!

Le labbra si componevano insieme con un vezzoso moto involontario se prolungava le parole: meno belle quando parlava, anche per giuoco, con ira; e forse non belle in esclamazioni di dolore e di pianto: erano fatte per sorridere.

Mirabili, signorilmente perfette, le mani… E a quella freschezza giovanile cresceva lume una nativa gentilezza, manifesta per i modi spontanei, per le acconciature semplici, per le vesti umili e le tinte chiare, e sin per i fiori che si puntava al petto.

Ma a lei, se Roveni perde vasi con Anna, non restava altro adoratore che l'antipatico Pieruccio?

Meglio così per «la mia piccola amica»!; meglio ritardasse a conoscere i perfidi inganni della giovinezza e le stupide illusioni dell'amore!..

E in quella sera di gioia per tutti, a me parve non aver altro pensiero buono che questo.

V

A tanto era ridotto il sapiente osservatore della vita umana nel tramite dei secoli: a scrutare anime di giovinette e a rintracciare amori di villeggiatura!

Ma io medico, che dovevo curare me stesso d'un male così strano e pauroso, intravedevo ancora un progresso nella mia coscienza: dai ricordi ero passato a osservazione di cose, persone, animi; e seguendo il barlume di ragione che m'aveva condotto, quella sera, a interpretar l'animo di chi mi stava intorno e a dimostrarmi cogli altri abbastanza disinvolto e mutato, pensavo ora che potrei di nuovo essere attratto alla vita e ricuperare la facoltà di sentire. N'era prova l'amarezza suscitata in me dallo spettacolo della giovinezza e della gioia.

Però la ragione mi diceva che la salvezza sarebbe nel dimenticar me stesso; e per dimenticarmi era necessario accrescere l'esercizio della volontà.

Come? Non in cose grandi o in cose gravi poteva più esercitarsi la volontà di un uomo annichilito. Mi ripetei che bisognava mi limitassi a piccoli desiderii, piccoli affetti, piccoli doveri.

Sì, anche doveri. L'amicizia me ne imponeva uno che cercai presentare alla mia coscienza come impellente. Guido e Marcella facevano all'amore e Claudio non ne sapeva nulla. Ed Eugenia sapeva, ma taceva e annuiva? Impossibile! Bugie; imbroglio! I due giovani avevano fiducia in me, ma io non dovevo prestarmi a ciò che un giorno mi costasse rimproveri; non dovevo tradir l'amicizia. Urgeva parlar a Guido, subito.

Gli parlai infatti, appena lo vidi.

Egli mi disse che sua madre voleva un gran bene a Marcella, perchè era una ragazza senza capricci; e ne aveva discorso lei stessa, alla signora Eugenia, delle intenzioni del figliolo.

– E Eugenia?

– Interrogò subito Marcella. – Sì che gli voglio bene, a Guido – (Il ragazzone contraffaceva, nella voce, anche l'innamorata). – Allora la signora chiamò me e mi fece una predica…

– Una predica? Eugenia?

– Un discorsetto: che senza il consenso di Moser non poteva permettermi d'essere assiduo; che, d'altra parte, finchè non fossi laureato, l'ingegnere s'opporrebbe… Capisce, lei, adesso, perchè abbiamo tanto giudizio? – conchiudeva Guido ingenuamente – Marcella io non la vedo che la sera…

– Di sera in casa…; di giorno alla finestra.

– Ahi! – Con una comica smorfia, che gli era abituale, egli significò il dispiacere d'essere stato scoperto.

Tuttavia, stando così le cose, io non avevo più nè diritti ne obblighi d'intromettermi. E Guido, in attesa della felicità, era felice. Laureatosi, eserciterebbe la professione per conservare il patrimonio; e ora studiava solo per superare gli esami. La ricchezza del padre; la fortuna di Moser; il carattere e le abitudini di sua madre; l'arrendevolezza di Eugenia, tutto era predisposto alla felicità di lui, tutto il mondo per lui. Che beatitudine!

Ma di nuovo che amarezza in me! O forse la contentezza altrui mi suscitava finalmente odio? Per fortuna non potevo odiar Mino, che mi assaliva con richieste di nuove favole. E Ortensia l'assecondava; come indovinasse che il proposito di adattarmi a loro mi farebbe bene.

Di su le ginocchia della sorella il fanciullo mi ascoltava ad occhi spalancati; entrambi mi ricompensavano di risate trionfali se attraverso i semplici intrichi portavo in salvo il debole dal forte, il topolino dal gatto, la pecora dal lupo, il bambino dall'orco.

Ma allorchè i miei ascoltatori ridevano più di cuore, io ricordavo Diderot:

«Amici! raccontiamo storielle! Finchè si dicon racconti non si pensa a nulla; il tempo passa e si compie la favola della vita senza accorgersene.»

Questo consigliava un uomo che aveva goduto il mondo con tumultuosa natura e ferrea fibra; che aveva negato Dio e proclamata la sovrana libertà della mente umana…

Ohi ma se tutte le gioie dell'amore, tutte le lusinghe dell'arte e del sapere, tutte le ebbrezze della gloria, tutte le frenesie di tutte le passioni, valgono in realtà meno che le favole della nostra fantasia, e lo scopo della vita è l'illusione, l'inganno, l'oblìo della vita, a che vivere?

… Appunto in quei giorni, ad accrescere la mia pena, un'anima semplice e umile presso a me benediceva la vita.

Per Eugenia era imminente il «gran giorno».

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