Adolfo Albertazzi - In faccia al destino

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– Eppoi?

– Eppoi cosa?

Non trovai altra domanda che intorno i divertimenti di lei, all'inverno.

Conversazioni? Ma che! non andavan da nessuno; non ricevevan nessuno. A teatro sì, qualche volta…; a opere o a commedie, di cui finsi ignorare l'argomento per non aver necessità d'interloquire e per lasciar dire a lei, chiacchierina agile e fervida. Nell'esprimere impressioni lontane e ancora sensibili essa aveva una prontezza insolita, e s'arrestava a quando a quando per esser confermata nel suo entusiasmo. Domandava: – Non è forse un bel dramma? Che bella musica, è vero?

Ma tosto io non le badai più affatto. Mentre proseguiva a discorrere, io, non so perchè, o perchè talora ella acuisse la voce al tono fanciullesco e da ciò fossi condotto a ripensarla ragazzetta, o perchè in quell'ora i suoi occhi avessero una luce più viva, o perchè la tinta rossa del tramonto mi rappresentasse, d'improvviso, un altro simile tramonto; non so perchè e come, io ebbi l'istantaneo presentimento d'un risveglio in me nel rinnovarsi d'un ricordo. La memoria, repentinamente e spontaneamente ridesta, mi ridiede in quello stato mortale una fugace coscienza di vita.

Non rammentavo un fatto che importasse, allora, alla mia esistenza; era anzi un fatto minimo che rivedevo e nel quale mi rivedevo con precisione e reintegrazione di circostanze, di azioni, di aspetti, di suoni. Con ogni senso percepii il ricordo.

E anche oggi lo riprendo e ripeto senza sforzo alcuno; in evidenza, per me, tragica, sebbene agli altri possa parere una futile rimembranza.

Un giorno d'autunno salivo al poggio dove una volta i frati del vicino convento riposavano dagli ozi della preghiera svagando l'occhio nel paesaggio intorno, ascoltando capinere e rosignoli, odorando effluvii di menta e di ginepro, bevendo aria vitale e dimenticando, paghi, che il paradiso è per dopo la morte. Ma quel giorno, a vespero, il dominio della mia solitudine era stato invaso; e da chi mi dichiararono alcune voci più alte fra il chiasso che mi giunse a mezza costa. Erano i miei amici; ragazzi e ragazze. Che facevano lassù? Quale nobile impresa? Volli sorprenderli. M'inerpicai di traverso; mi celai a spiare tra una macchia.

Ma bravi! ma bene! Non ci mancava nessuno. Le signorine Marcella Moser e Anna Melvi diricciavano castagne a colpi di pietra e parlavano sommesse; di contro, Guido Learchi, già studente di medicina, zufolava interrompendosi per sgridare, quale direttore all'opera, e finiva di comporre un forno con mattoni e sassi. Gli servivano da manuali Ortensia Moser e Pieruccio Fulgosi, affaticati a raccogliere il combustibile.

– Là!

– Nella siepe!

– Sotto al noce!

Furettavano dappertutto e per poco non mi scovavano.

Pieruccio più svelto di tutti ammucchiava foglie e fronde, che Ortensia recava a bracciate.

Guido protestava:

– Legna grossa e secca! Con questa non si fan bracie!

– Ecco! A te! prendi!

– Che uomini! Un'ora per fare un po' di fuoco! – gridava Ortensia.

E Learchi a bofonchiarla: – Meh! meh! meh!

Poi egli diede uno scapaccione a Pieruccio ordinando:

– Spicciati, tu! Altra legna! legna! dico legna!

Finchè annunciò: – Pronti! – e appiccò il fuoco. Un clamore d'applausi salutò le prime volute di fumo.

– Forza! Siete in ordine?

– Sì, ma non le bracie!

Quand'ecco Pieruccio venne da lungi con grida più alte:

– Legna grossa, signori! legna da carbone! – Si traeva dietro una panca.

– Da bruciare?

– Sei matto?!

– Bruciamola! Bruciamola!

– Non si può! Non è nostra! – protestava Marcella.

– È rotta!

– Bene! Va bene, questa!

– Bruciamola!

– No!

– Sì!

– Sì! Bruciamola!

Urtoni, strappi, scappellotti, strida.

E io piombai in mezzo alla mischia.

Allora! Dopo il breve silenzio della sorpresa:

– Eh! Chi si vede! Ben arrivato! Buona sera! – Sta bene? – Ma si accomodi! – Che cosa comanda? – Uh, che faccia!

Sostenendo io, quantunque a fatica, il cipiglio di severità, le tre signorine, raccolte insieme a braccetto per comune difesa, mi risero in faccia; mentre Guido ripeteva inchini e chiedeva:

– In che possiamo servirla?

Quieto solo lui, Pieruccio, mi attaccava un riccio nella giacca, alle spalle.

– Punto primo! – urlai (Oh in che imbroglio mi ero messo!) – Qui si è rubato!

– Nossignore! – S'inganna! – Non è vero!

– Lasciatelo dire!

– Si sono sbattuti i castagni!

– È falso! – Calunnia! – Calunnia! – Lasciatelo cantare! Ha invidia! – Si calmi…

– Questi ricci sono stati staccati dalle piante! Ho visto! Si vede!

– Uh!.. Bugia! Li abbiamo raccolti in terra!

– Tutti? – interrogavo ora chi non mentiva mai: Ortensia.

– In terra! erano in terra!

Ma Ortensia rispose:

– Due soltanto…

– E chi li ha tolti?

– Io!

Sincera fino alla sfacciataggine. Tutti, tranne Pieruccio, il quale cheto cheto proseguiva l'addobbo al mio dorso, risero, e le dissero: – Brava!

Io urlai ancora:

– Punto secondo! È proibito mangiar castagne o cotte o crude prima di desinare.

– Brrr! – Ha ragione! – Non gliene daremo nemmeno una! – Sì! una, perchè ne faccia la voglia! – Nessuna! Nessuna! – Poverino!..

Anna aggiunse: – La finisca! – ; e la timida Marcella, anche lei: – La smetta!

A cui seguì stentorea la minaccia di Guido; la minaccia studentesca, piazzaiuola, anarchica, spaventevole:

– Abbasso i poliziotti!

– Abbasso!

Che fare? Chi mi salverebbe? Solo un incidente imprevedibile. Infatti Pieruccio, compiuta l'opera sua, mi punse d'un riccio a un polpaccio, e io mi gli rivolsi contro…

– Evviva! – Parve si scoprisse un monumento. Tal gioia fu a vedermi tappezzato a quel modo, che le signorine e il monello minore fecero, a mano a mano, catena; mi rinchiusero in un cerchio; mi rigirarono cantando in coro:

È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulera!
È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulà!

Intanto Guido sopperiva alla bisogna.

Punf! paf! Due castagne scoppiarono: Marcella e Anna mi presero a braccio; Ortensia mi ripuliva; Pieruccio accorse e si scottò le dita.

– Sia buono! – cominciarono a pregarmi i meno ingordi. – Non faccia la spia! Mangi con noi! – E mi convenne sedere al banchetto, complice o manutengolo.

Ma (approssimava il tramonto) dal fondo dell'anima io mi sentiva sorgere a poco a poco un'uggia che oscurava il sollazzo cercato con simpatia puerile; e in me avvertivo come uno sforzo a dimenticare la differenza dell'età fra me e coloro, e provavo come il rimpianto di quell'età, e mi chiedevo se a quindici anni io avessi avuto una giornata di così piena giocondità, di così assoluta spensieratezza. I compagni ridevano, motteggiavano, bofonchiavano, si eccitavano a vicenda, maggiori e minori, per esilarare ed esilararsi sempre più; e il giorno era per morire, nel modo dei giorni d'autunno.

Finchè, sazii, si levarono; avventarono nel fuoco quanto fogliame poterono raccogliere d'intorno, e dopo nuovi applausi ed evviva, a rincorse, strillando giù per il viale, tutti m'abbandonarono: un drappello di passeri che aveva spiccato il volo.

Si confusero le voci; echeggiarono forti; tornarono deboli; cessarono interrotte e furon riprese là in fondo, lontano, da un richiamo più alto; morirono.

Intanto il sole cadeva in un'onda di vivo sangue e i raggi che ne sprizzavano, colpendo il monte avverso, vibravano tra i faggi, gli abeti e i castagni della densa costa boschiva, sì che pareva, a fusti d'ametista e di zaffiro, una selva incantata, tutta fulgida d'oro, sfavillante. A nord i monti in cerchia dove non avevano luce o non ricevevan riverbero, annerivano; mancavano i profili e i contorni; scemavano e sfumavano le ultime vette; e dalla parte di mezzodì, sulla plaga che scampa alle due catene protese quasi per un impotente abbraccio, su per la pianura immensa aperta all'orizzonte, il cielo digradava dalle tinta di viola e un'opalina bianchezza, a un cilestre che diventava azzurro, a un azzurro che incupiva sempre più; finchè terra e cielo insieme terminavano nell'oscurità.

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