Camillo Antona-Traversi - Danza macàbra
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Danza macàbra
Amico e maestro dilettissimo,
Firenze, 25 gennaio 1894.Intitolando al chiaro nome di Lei questa mia commedia, io pago un debito antico e per me sacro.
Chè di tutte le cose belle e buone che sono sulla terra, l'amicizia – intesa e praticata come la intendevano e praticavano gli antichi romani – è la più alta, la più gentile, la più sacra! oso anche dire la più vera.
E Lei è stato sempre per me un amico, un fratello.
De' molti e salutari suoi consigli ho fatto in ogni tempo tesoro: e se ho potuto dare al teatro italiano qualche commedia non del tutto infelice, a Lei, a Lei solo, lo devo.
Confessandomene in pubblico, adempio un dolcissimo dovere; e dandole il caro nome di maestro, dirò solo, e a mala pena, ciò che il cuore mi detta.
Da Lei ho imparato ad amar l'arte sul serio: da Lei mi son venute le prime norme dello scrivere per il teatro: dalla lettura delle sue dottissime critiche l'insegnamento più utile e più salutare.
S'abbia, dunque, con la povera offerta di questa mia Danza macàbra – che la buona critica italiana ha giudicata degna figliuola delle Rozeno – , tutto il mio cuore e tutta la mia ineffabile gratitudine.
Con affetto di discepolo, di amico, di fratello m'è soprammodo caro dichiararmi
Affezionatissimo
CAMILLO ANTONA-TRAVERSI.Al cortese che mi legge,
Dimorando in Roma, dove passo i migliori mesi dell'anno, ho assistito, in questa fine di secolo , a molte tragiche vicende; ma nessuna di esse ha tanto commosso la mia fantasia, quanto lo sfasciarsi delle colossali fortune delle principesche famiglie romane.
Qual immensa rovina: qual crollo formidabile di tutto un passato storicamente importante: quale sfacelo doloroso e terribile delle maggiori glorie avite, delle più nobili tradizioni, delle più colossali ricchezze, della vetusta opera di tanti secoli!
Chi, or sono pochi mesi, con la mente e il cuore pieni degli storici ricordi delle maggiori famiglie del superbo Patriziato romano, si raggirava – muto e silenzioso – per le sale ampie e solenni de' lor palazzi, un giorno così sfolgoreggianti di una folle ricchezza, non dubbia testimonianza di un fasto, ch'ebbe i più grandi splendori; e, oggi, deserti d'ogni arazzo, d'ogni tappeto, d'ogni mobile, d'ogni oggetto di lusso, d'ogni quadro, d'ogni vaso antico, d'ogni stemma nobiliare, d'ogni segno della grandezza di un tempo; non isfuggiva, certo, a un senso di sacro terrore e d'incommensurabile pietà.
Perchè si può essere, fin che si vuole, figli di questi giorni, così densi di nobili aspirazioni verso un presente più umano, più civile, più sociale, più vicino alla religione predicata da Cristo, e riaccostantesi assai più a' veri fini della natura e del consorzio civile; ma non è possibile, per chi serbi almeno la scorza d'uomo, non sentirsi profondamente commosso dinanzi alla maestosa rovina di tanti secoli di nobiltà, di ricchezza e di gloria!
Certo la caduta del grande Patriziato romano è uno de' più benefici effetti del tempo che è il nostro. Quando una casta – sia pur storicamente gloriosa – ha percorso il ciclo assegnatole nel tempo, è legge salutare e naturale che si consumi e perisca; rinnovellandosi sotto altra forma, con altri aspetti; dando vita a nuove usanze, a nuove idee, a nuovo e assai più confacente decoro.
Il crollo di tutto un passato di dispotismo, d'ingiustizia, di sfida a ogni benessere umano e civile, di prepotenza, di assolutismo, d'ignoranza e di superstizione volgare, non può non riempire di giubilo ogni anima assetata dell'eterno Vero: ogni cuore anelante a quella morale e sociale rigenerazione della impoverita e sofferente Umanità. Ma, ripeto, l'artista e l'uomo di cuore non possono, al tempo stesso, vedere sparire, senza un senso di dolorosa mestizia e di sincero rimpianto, tutti i tesori artistici che, per tanti secoli, formarono il maggiore e miglior ornamento di tanta gente secolarmente grande e superba.
Portare sulla scena una di queste storiche famiglie romane: mettere i Vecchi di fronte a' Giovani: colpire gli uni e gli altri in ciò che era, sino a poco tempo fa, il lor più nobile retaggio; e in pieno petto: rappresentarli ne' loro stessi vizj: dipingerli, qual sono, per la maggior parte ignoranti, giocatori, scavezzacolli, sfaccendati, filibustieri: coglierli nelle non possedute virtù pubbliche e private: mostrare come i Giovani siano stati travolti dalla Borghesia, dalla quale si fecero afferrare senza preparazione di sorta alcuna: mettere a nudo la miseria intellettuale, la fastosa prosopopea, le meretricie debolezze, i vizj delle lor dame: fare, in una parola, che si distruggano per forza propria, anzichè per il nuovo impulso de' tempi novissimi; e non isfuggire insieme a quel giusto senso di commiserazione che pur devono e non possono non destare, parve a me, confesso, argomento de' più importanti per un commediografo moderno.
Innamorato di un tal argomento: raccolti in Roma tutti i documenti necessarj: studiate, da vicino, le cagioni di tanta aristocratica e imperversante rovina, m'accinsi animoso all'opera; non senza dubitare – confesso qui candidamente – delle povere mie forze e dell'ingegno poverissimo.
Il lavoro, da quando nacque nella mia mente, e si tradusse sulla carta, andò soggetto a innumerevoli trasformazioni. A mano a mano che davo vita a' personaggi da me studiati nella vita, m'imbattevo in difficoltà tecniche, non facilmente superabili. Si può voler essere veristi fin che si vuole sulla scena; e dichiarar guerra aperta a ogni convenzione , a ogni mezzuccio volgare: si può essere, come io sono, sacerdote della dea Verità; tendere al Vero umano semplicemente; ma non è possibile sfuggire del tutto alle dure pretensioni e alle fatali strettoje sceniche: di qui, solo di qui, difficoltà senza numero, che solo coloro i quali hanno scritto almeno una volta per il teatro, possono intender di leggieri.
In tanto, il mio ottimo Cesare Rossi – che, dopo il successo delle mie Rozeno , da Lui e da' bravi attori della sua Compagnia portate trionfalmente per i maggiori teatri d'Italia, aveva riposto in me e nell'arte mia la più cieca fiducia – non mi dava tregua; e mi tempestava di lettere e di amichevoli sollecitazioni. E, come lui, così i suoi attori, miei carissimi amici, interpreti assai degni delle mie povere, ma sincere, commedie. Io, afflitto anche da una grave malattia d'occhi, cagionata dal soverchio lavoro notturno, facevo orecchi di mercante; e non cessavo, in tanto, dall'accarezzare e fermar meglio nella mente i personaggi, cui vagheggiavo toglier dalla vita per trasportare, senza ipocrisia e non senza coraggio civile, sopra la scena.
Io promisi, almeno per quanto è consentito alla volontà umana, di consegnare all'illustre Attore la mia Danza macàbra perchè la rappresentasse, nel mese di ottobre, al teatro Alfieri di Torino. E, detto fatto, mantenni la parola data.
Questa volta – grazie al cielo e al buon successo continuato delle Rozeno – non ebbi a soffrir davvero, nè ad aspettare più d'un anno, per vedere questa mia Danza brillare, od oscurarsi, all'incerto lume della ribalta.
Uso a mantenere la mia parola, da Bologna, dov'era in cura de' miei poveri occhi, mandai il copione della Danza a Torino: e una cara lettera di Cesare Rossi m'avvertì che la commedia sarebbe stata messa subito in prova e studiata con gran diligenza e infinito amore.
«Il tuo lavoro – mi scriveva l'illustre Attore – pare a me, e a' miei Compagni, superiore per tecnica e pensiero alle Rozeno: resta solo a vedere se avrà, per il pubblico, la stessa teatralità . Te lo metto subito in prova , e ti aspetto a Torino.»
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