Carlo Botta - Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II: краткое содержание, описание и аннотация

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Prestatosi dal senato il giuramento, si accostarono a prestarlo, presente sempre il generale di Francia, i magistrati sì civili che ecclesiastici; il che fece in tutta Bologna una gran festa, grata al popolo, perchè nuova, e con qualche speranza grata al senato, perchè da servo si persuadeva di esser divenuto padrone, non badando che se era grave la servitù verso il papa, sarebbe stata gravissima verso i nuovi signori.

Diessi principio al nuovo stato, secondo il solito, a suon di denaro. Pose Buonaparte gravissime contribuzioni di guerra. Si querelavano i popoli, parendo loro che le contribuzioni fossero opera piuttosto da nemico, che da alleato; conciossiachè con questo nome aveva il generalissimo chiamato la repubblica di Bologna. Pure se ne acquetavano, perchè sapevano che bisogna bene, che i soldati vivano del paese che hanno. Solo si sdegnavano dello scialacquo, perchè conformandosi quietamente al fornire le cose necessarie, non potevano tollerare di dar materia ai depredatori, che i soldati, e gl'Italiani ugualmente rubavano. Poco stante successe, come a Milano, un fatto enorme, che dimostrò vieppiù qual fosse il rispetto, che Saliceti e Buonaparte, ai quali il direttorio aveva dato in preda l'Italia, portavano alle proprietà ed alla religione. Imperciocchè, poste violentemente le mani nel monte di pietà, lo espilarono per far provvisioni, come affermavano, all'esercito. Solo restituirono i pegni che non eccedevano la somma di lire ducento, come se fosse lecito rapire o non rapire, secondo le maggiori o minori facoltà dei rapiti. Ma temendo gli autori di tanto scandalo lo sdegno di un popolo generoso, quantunque attorniati da tante schiere vittoriose, avevano per previsione ordinato che si togliessero le armi ai cittadini.

I repubblicani, procedendo più oltre, s'impadronivano di Ferrara, fatto prima venir a Bologna, sotto specie di negoziare sulle faccende comuni, il cardinale Pignatelli legato, e quivi trattenutolo come ostaggio, finchè fosse tornato da Roma sano e salvo il marchese Angelelli, ambasciadore di Bologna. Creato dai vincitori a Ferrara un municipio d'uomini geniali, vi posero una contribuzione di un mezzo milione di scudi romani in contanti, e di trecento mila in generi. Queste angherìe sopportavano pazientemente e per forza Bologna e Ferrara; ma non le potè tollerare Lugo, grosso borgo, posto in poca distanza da Imola; perchè concitati gli abitatori a gravissimo sdegno contro i conquistatori, si sollevarono, gridando guerra contro i Francesi. Pretendevano alle parole loro, e ne fecero anche fede con un manifesto, perchè si accorgevano che soli, e senza un moto generale, non potevano sperare di far effetto d'importanza, la religione, la salvezza delle persone e delle proprietà, la libertà e l'indipendenza d'Italia. Concorsero nel medesimo moto coi Lughesi altre terre circonvicine, e fecero una massa di popolo molto concitata, e risoluta al combattere. I preti gli secondavano, dando a questa moltitudine il nome di oste cattolica e papale. Augereau, come ebbe avviso del tumulto, mandava contro Lugo una grossa squadra di fanti e di cavalli, alla quale era preposto il colonnello Pourailler. Comandava intanto pubblicamente, avessero i Lughesi a deporre le armi e ad arrendersi fra tre ore, e chi nol facesse, fosse ucciso. Aveva in questo mezzo il barone Cappelletti, ministro di Spagna, interposto la sua mediazione, perchè da una parte i Francesi perdonassero, dall'altra i Lughesi, deposte le armi, si quietassero. Ma fu l'intercessione sdegnosamente rifiutata da quei popoli, più confidenti di quanto fosse il dovere, in armi tumultuarie ed inesperte. Per la qual cosa, dovendosi venire, per la ostinazione loro, al cimento dell'armi, i Francesi si avvicinavano a Lugo, partiti in due bande, delle quali una doveva far impeto dalla parte d'Imola, l'altra dalla parte d'Argenta. La vanguardia, che marciava con troppa sicurezza, diede in una imboscata, in cui restarono morti alcuni soldati. Non ostante, volendo il capitano Francese lasciar l'adito aperto al ravvedimento, mandava un uffiziale a Lugo per trattare della concordia. Fu dai Lughesi rifiutata la proposta; narrasi anzi da Buonaparte, che i sollevati, fatto prima segno all'uffiziale che si accostasse, lo ammazzarono, con enorme violazione dei messaggi di pace. Si attaccò allora una battaglia molto fiera tra i Francesi ed i sollevati. La sostennero per tre ore continue ambe le parti con molto valore. Finalmente i Lughesi rotti e dispersi furono tagliati a pezzi con morte di un migliajo di loro, avendo anche perduto la vita in questa fazione ducento Francesi. Fu quindi Lugo dato al sacco; condotte in salvo dal vincitore le donne ed i fanciulli, ogni cosa fu posta a sangue ed a ruba. Fu Lugo desolato; rimasero per lungo tempo visibili i vestigi della rabbia con cui si combattè, e della vendetta che seguitò. Furono terribili le pene date dai repubblicani ai sollevati, ma non furono più moderate le minacce che seguitarono. Comandava Augereau, che tutti i comuni si disarmassero, che le armi a Ferrara si portassero; chi non le deponesse fra ventiquattr'ore, fosse ucciso; ogni città, o villaggio, dove restasse ucciso un Francese, fosse arso; chi tirasse un colpo di fucile contro un Francese, fosse ucciso, e la sua casa arsa; un villaggio che si armasse, fosse arso; chi facesse adunanze di gente armata, o disarmata, fosse ucciso. Tali furono gli estremi della guerra Italica, giusti per la conservazione dell'esercito di Francia, ingiusti per le cagioni ch'egli stesso aveva indotte; perchè il volere che i popoli ingiuriati non si risentano, è voler cosa contraria alla natura dell'uomo.

Al tempo medesimo sorgeva un grave tumulto nei feudi imperiali prossimi al Genovesato, principalmente in Arquata, con morte di molti Francesi. Vi mandava Buonaparte, a cui questo moto dava più travaglio che il rivolgimento di Lugo, perchè lo molestava alle spalle, il generale Lannes con un buon nervo di soldati, acciocchè lo quietasse. Conseguì Lannes facilmente l'intento tra per la paura delle minacce, e pel terrore dei supplizj.

Le vittorie dei repubblicani, i progressi loro verso la bassa Italia, l'occupazione di Bologna e di Ferrara avevano messo in grandissimo spavento Roma. Ognuno vedeva che il resistere era impossibile, e l'accordare pareva contrario non solo allo stato, ma ancora alla religione. Tanto poi maggior terrore si era concetto, quanto più non si poteva prevedere quale avesse ad essere la gravità delle condizioni, che un vincitore acerbo per se, acerbissimo pel contrasto fattogli, avrebbe dal pontefice richiesto. Nè meglio si poteva antivedere, se avrebbe portato rispetto alla città stessa di Roma, parendo, che siccome sarebbe stato un gran fatto l'occupazione di lei, così Buonaparte cupidissimo di gloria l'avrebbe mandata ad effetto. E quale disordine, quale conculcazione delle cose sacre e profane prodotto avrebbe la presenza d'uomini poco continenti dalle cose altrui, e poco aderenti alla religione, di cui era Roma seggio principale? Per la qual cosa, come in tanto pericolo i privati uomini non avevano più consiglio, così poco ancora ne aveva il governo, perchè le armi temporali mancavano, le spirituali non valevano, il nome di Roma era più sprone che freno, e la dignità papale, che pure aveva frenato ai tempi antichi un capitano barbaro, era venuta in derisione. I ricchi pensavano alla fuga, come se il nemico già fosse alle porte. Gran tumulto, gran folla e gran concorso erano, principalmente a porta Celimontana di gente di ogni sesso, di ogni grado e di ogni condizione, che fuggendo dal minacciato Campidoglio, s'incamminava spaventata verso Napoli. Temevasi la cupidigia del nemico, temevasi la temerità dei cittadini.

Intanto Pio VI, che in mezzo al terrore dei suoi consiglieri e del popolo, serbava tuttavìa la solita costanza, aveva commesso al cavaliere Azara ed al marchese Gnudi, andassero a rappresentarsi a Buonaparte, e procurassero di trovare qualche termine di buona composizione, avendo loro dato autorità amplissima di negoziare e di concludere. Buonaparte, in nome per far cosa grata al re di Spagna, che per mezzo del suo ministro si era fatto intercessore alla pace, in realtà, perchè non gli era nascosto che l'imperatore, finchè teneva Mantova, non avrebbe omesso di mandar nuove genti alla ricuperazione de' suoi stati in Italia, e che però sarebbe stato a lui pericoloso l'allargarsi troppo verso l'Italia inferiore, acconsentì, ma con durissime condizioni, a frenar l'impeto delle sue armi contro lo stato pontificio. Laonde concludeva, il dì ventitrè giugno, una tregua coi due plenipotenziarj del papa, in cui fu stipulato, che il generalissimo di Francia, e i due commissarj del direttorio Garreau e Saliceti, per quell'ossequio che il governo Francese aveva verso Sua Maestà il re di Spagna, concedevano una tregua a Sua Santità, la quale tregua avesse a durare insino a cinque giorni dopo la conclusione del trattato di pace che si negozierebbe in Parigi fra i due stati; mandasse il papa, più presto il meglio, un plenipotenziario a Parigi al fine della pace, e perchè escusasse a nome del pontefice gli oltraggi e i danni fatti a' Francesi negli stati della Chiesa, specialmente la morte di Basseville, e desse i debiti compensi alla famiglia di lui; tutti i carcerati a cagione di opinioni politiche si liberassero; i porti del papa a tutti i nemici della repubblica si chiudessero, ai Francesi si aprissero; l'esercito di Francia continuasse in possessione delle legazioni di Bologna e Ferrara, sgombrasse quella di Faenza; la cittadella d'Ancona con tutte le artiglierìe, munizioni e vettovaglie si consegnasse ai Francesi; la città continuasse ad esser retta dal papa; desse il papa alla repubblica cento quadri, busti, vasi, statue ad elezione dei commissarj, che sarebbero mandati a Roma; specialmente, poichè i repubblicanuzzi di quel tempo la volevano far da Bruti, i busti di Giunio Bruto in bronzo, di Marco Bruto in marmo si dessero; oltre a questo cinquecento manoscritti ad elezione pure dei commissarj medesimi cedessero in potestà della repubblica; pagasse il papa ventun milioni di lire tornesi, dei quali quindici milioni e cinquecento mila in oro, od argento coniato o vergato, e cinque milioni e cinquecentomila in mercatanzie, derrate, cavalli e buoi; i ventuno milioni suddetti non fossero parte delle contribuzioni da pagarsi dalle tre legazioni; il papa desse il passo ai Francesi ogni qualvolta che ne fosse richiesto: i viveri di buon accordo si pagassero.

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