Carlo Botta - Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI
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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI: краткое содержание, описание и аннотация
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Giovacchino, come soldato, comportava ogni cosa ai soldati: ne nasceva una licenza militare insopportabile. Seguitava anche quest'effetto, che il solo puntello che avesse alla sua potenza, erano i soldati, e che nissuna radice aveva nell'opinione dei popoli. Le insolenze soldatesche si moltiplicavano. Non solo ogni volontà, ma ogni capriccio di un capo di reggimento, anzi di un ufficiale qualunque dovevano essere obbedite, come se fossero leggi: chi anzi si lamentava, era mal concio, e per poco dichiarato nemico del re. Molto, e con ragione si erano doluti i popoli delle insolenze dei baroni, ma quelle dei capitani di Giovacchino erano maggiori. Rappresentavano i popoli i loro gravami, domandando protezione ed emenda. Ma le soldatesche erano più forti delle querele, e si notava come gran caso, che chi si era lagnato non fosse mandato per la peggiore. Nascevano nelle province un tacere sdegnoso, ed una sopportazione desiderosa di vendetta. Nè in miglior condizione si trovava Napoli capitale. La guardia reale stessa che attendeva alla persona di Giovacchino, oltre ogni termine trascorreva. Nissuna quiete, nissun ordine poteva esser pei cittadini, nè nel silenzio della notte, nè nelle feste del giorno; perchè solo un ufficiale della guardia il volesse, tosto turbava con importuni romori, minacce ed insolenze i sonni ed i piaceri altrui. Il re comportava loro ogni cosa. I mandatarj dei magistrati civili, che s'attentavano di frenare sì biasimevoli eccessi, erano dai soldati svillaneggiati, scherniti e battuti; e sonsene veduti di quelli, che arrestati per aver fatto il debito loro, dalle sfrenate soldatesche, e condotti sotto le finestre del palazzo reale, furono, veggente il re, segni di ogni vituperio. Quest'era lo stato di Napoli, quest'un governar peggiore che di Turchia. Troppo era fresco il dominio di Murat, a fare che un tal procedere non fosse non solamente barbaro, ma ancora pericoloso.
I mali umori prodotti dalle enormità commesse dai soldati di Murat davano speranza alla corte di Palermo, che le sue sorti potessero risorgere nel regno di qua dal Faro. Infuriava tuttavia la guerra civile nelle Calabrie, nè gli Abruzzi quietavano. Erano in questi moti varie parti, e vari fini; alcuni di coloro che combattevano contro Giovacchino, e che avevano combattuto contro Giuseppe, erano aderenti al re Ferdinando, altri amatori della repubblica. Taccio di coloro, e non erano pochi, che solo per amore del sacco e del sangue avevano le armi in mano. Non sarà, credo, narrazione incresciosa a chi leggerà queste storie, se io racconterò come, e per qual cagione la setta dei carbonari a questi tempi nascesse. Alcuni dei repubblicani più vivi, ritiratisi durante le persecuzioni usate contro di loro, nelle montagne più aspre, e nei più reconditi recessi dell'Abruzzo e delle Calabrie, avevano portato con se un odio estremo contro il re, non solamente perchè loro persecutore era stato, ma ancora perchè era re. Nè di minore odio erano infiammati contro i Francesi, sì perchè avevano disfatto la repubblica propria, e quelle d'altrui, sì perchè gli avevano anche perseguitati. Non potevano costoro pazientemente tollerare, che in cospetto loro, non che di Ferdinando, di Giovacchino, non che di Giovacchino, di regno si favellasse. Così tra aspri dirupi e nascoste valli vivendosi, gli odj loro contro i re e contro i Francesi fra immense solitudini continuamente infiammavano. Ma sulle prime isolati, ed alla spartita vivendo, nissun comune vincolo gli congiungeva, intenti piuttosto ad arrabbiarsi, che a vendicarsi. Gl'Inglesi, che custodivano la Sicilia, ebbero notizia di quest'umore, ed avvisarono che fosse buono per turbare il regno contro i Francesi. Pertanto gli animarono a collegarsi fra di loro, affinchè con menti unite concorressero ai medesimi disegni, e creassero nuovi seguaci. Per accendergli promettevano gl'Inglesi qualche forma di constituzione. Sorse allora la setta dei carbonari, la quale acquistò questo nome, perchè ebbe la sua origine, e si mostrò la prima volta nelle montagne dell'Abruzzo e delle Calabrie, dove si fa una grande quantità di carbone. Molti ancora fra questi settarj sapevano, ed esercevano veramente l'arte del carbonajo. Siccome poi non ignoravano, che a voler tirar gli uomini, niuna cosa è più efficace che le apparenze astruse e mirabili, così statuirono pratiche e riti maravigliosi. Principal capo ed instigatore era un uomo dotato di sorprendente facoltà persuasiva, che per nome si chiamava Capobianco. Avevano i carbonari quest'ordine comune coi liberi muratori, che gli ammessi passavano successivamente per varj gradi fino al quarto; che celavano i riti loro con grande segretezza; che a certi statuiti segni si conoscevano fra di loro; ma in altri particolari assai erano diversi i carbonari dai liberi muratori; conciossiachè, siccome il fine di questi è il beneficare altrui, e di banchettar se stessi, così il fine di quelli era l'ordine politico degli stati. Avevano i carbonari nel loro procedere assai maggior severità dei liberi muratori, perchè non mai facevano banchetti, nè mai fra canti e suoni si rallegravano. Il loro principal rito in ciò consisteva, che facessero vendetta, come dicevano, dell'agnello stato ucciso dal lupo, e per agnello intendevano Gesù Cristo, e pel lupo i re, che con niun altro nome chiamavano, se non con quello di tiranni. Se stessi poi nel gergo loro chiamavano col vocabolo di pecore, ed il lupo credevano essere il monarca, sotto il quale vivevano. Opinavano altresì che Gesù Cristo sia stato la prima e la più illustre vittima della tirannide, e protestavano volerlo vendicare con la morte dei tiranni. Così come adunque i liberi muratori intendono a vendicar la morte del loro Iramo, i carbonari intendevano a vendicare la morte di Cristo. In questa setta entravano principalmente uomini del volgo, sulla immaginazione dei quali gagliardissimamente operavano, con vivi colori rappresentando la passione, e la morte di Cristo, e quando nelle loro congreghe i riti loro adempivano, avevano presente un cadavere tutto sanguinoso, che dicevano essere il corpo di Gesù Cristo. Quale effetto in quelle Napolitane fantasie sì terribili forme partorissero, ciascuno sel può considerare. Erano i segni loro per conoscersi vicendevolmente, quando s'incontravano, oltre alcuni altri, il toccarsi la mano ed in tale atto col pollice segnavano una croce nella palma della mano l'uno dell'altro. Quello, che i liberi muratori chiamano loggia, essi baracca chiamavano, e le assemblee loro col nome di vendite distinguevano, ai carbonari veri alludendo, i quali scendendo dalle montagne andavano a vendere il carbone loro pei mercati in pianura. Sentivano, come abbiamo detto, molto fortemente di repubblica: niun altro modo di reggimento volevano, che il repubblicano, ed in repubblica già si erano ordinati apertamente nelle parti di Catanzaro sotto la condotta di quel Capobianco, che abbiamo sopra nominato. Odiavano acerbamente i Francesi, acerbissimamente Murat per essere Francese e re, ma non per questo erano amici di Ferdinando, perchè piuttosto non volevano re. Nati prima nell'Abruzzo e nelle Calabrie, si erano propagati nelle altre parti del regno, e perfino nella Romagna avevano introdotto le pratiche loro, e creato consettarj. In Napoli stessa pullulavano: non pochi fra i lazzaroni della secreta lega erano consapevoli e partecipi.
Vedendo Ferdinando, che la potenza dei carbonari era cosa d'importanza, si deliberava, a ciò massimamente stimolato da Carolina sua moglie e dagl'Inglesi, di fare qualche pratica acciocchè se possibil fosse, concorressero co' suoi proprj aderenti al medesimo fine, che era quello di cacciar i Francesi, e di restituirgli il regno. Principale mezzano di queste pratiche era il principe di Moliterno, che, tornato d'Inghilterra, dove si era condotto per proporre a quel governo, che dichiarasse l'unione e l'independenza di tutta Italia, se vi voleva far frutto contro i Francesi, le quali proposte non volle l'Inghilterra udire, non fidandosi del principe, per essere stato repubblicano, si era in Calabria fatto capo di tutti gli antichi seguaci del cardinal Ruffo, e vi teneva le cose molto turbate contro Giovacchino. Parlava efficacemente dell'unione e independenza dell'Italia, ed in queste dimostrazioni era ardentemente secondato dalla regina, che si persuadeva di potere con questo allettativo, non solamente ricuperare il regno, ma ancora acquistare qualche altra parte importante. Pareva Moliterno personaggio atto a questi maneggi coi carbonari, perchè ai tempi di Championnet era stato aderente della repubblica, ed anzi per questa sua opinione proscritto dalla corte di Napoli. I carbonari, sì perchè erano aspramente perseguitati dai soldati di Murat, sì perchè Moliterno sentiva di repubblica, e sì perchè finalmente molto si soddisfacevano di quella unione e independenza d'Italia, prestavano favorevoli orecchie alle proposte del principe e della regina. Ciò non ostante stavano di mala voglia, e ripugnavano al venire ad un accordo con gli agenti regj. Per vincere una tale ostinazione, il governo regio di Palermo dava speranza ai carbonari, che avrebbe loro dato una constituzione libera a seconda dei desiderj loro. Per questi motivi, e massimamente per questa promessa, consentirono ad unirsi con gli aderenti del re a liberazione del regno dai Francesi. A queste risoluzioni vennero la maggior parte dei carbonari; ma i più austeri, siccome quelli che abborrivano da ogni qualunque lega con coloro che stavano ad un servizio regio, continuarono a dissentire, e questa parte discordante fu quella, che ordinò quella repubblica di Catanzaro, che abbiamo sopra nominato.
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