Pio Ferrari - Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867

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Villa Glori – Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867: краткое содержание, описание и аннотация

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Rientrando nell'albergo ci si affacciò un frate zoccolante con una cassetta per la questua e noi, come ogni altro inquilino dell'Hôtel Minerva, pagammo senza batter becco il nostro tributo alle anime. Quel frate stava da mattina a sera sulla porta dell'albergo e poichè era albergo frequentato da persone ricche ed abbienti, fors'era questa una speculazione di diritto per qualche convento. Al proprietario dell'albergo, del resto, poteva far comodo come controllo della gente che andava e veniva; fors'anche costui poteva essere un arnese della polizia, ma per noi rappresentava soltanto un pedaggio assai noioso.

Sette od otto giorni si stette all'albergo della Minerva, ma soltanto a dormire. Ci scottava il suolo sotto i piedi in quelle camere e in quell'ambiente. Le pareti stesse potevano parlare. Oltre a ciò i prezzi erano molto elevati e di quattrini per andar incontro all'ignoto non avevamo certamente dovizia.

Avevamo perciò scoperto per i pasti un luogo abbastanza centrale, ma molto democratico. Era la trattoria dei Tre Ladroni in via dell'Umiltà, vicino al Corso. Ora non esiste più. Non vi si mangiava male, ma era un vero antro di Caco e l'insegna non poteva essere più adatta per simile ambiente buio, umido e pur troppo anche sudicio. Ci convenivano militari di bassa forza, borghesi di campagna e preti scagnozzi.

Il posto ci parve ottimo per eludere la polizia.

Ma una sera, anche là, poco ci mancò che non cadessimo in trappola.

Di fronte al nostro tavolo bevevano una foglietta di vino due legionari d'Antibo che, come guerrieri, non erano certo nè Ettori nè Ajaci e men che meno Adoni.

– Guarda un po'! mi disse sottovoce in vernacolo il mio compagno. Se costoro si possono chiamare soldati, io mi lascio volentieri tagliare la testa (veramente altra era la frase)!

Io sorrisi e non risposi, ma uno dei due soldati cominciò a conversare coll'altro alterato, volgendosi ogni tanto verso di noi con piglio e gesto che sembravan di sfida.

– Oh vedi se può essere soverchia la prudenza! Costoro sembra che intendano anche il dialetto ed abbiano compreso il nostro discorso, diss'io sommessamente.

Intanto il militare continuava a parlar alterato, sempre col volto e talvolta coi pugni a noi rivolti. Allora senz'altro noi chiedemmo al cameriere:

– Che cos'hanno quei due soldati?

E uno dei militari senza lasciar tempo al cameriere di rispondere

Dites à ces messieurs là , esclamò, que je ne comprend pas la langue italienne, mais cepandant j'ai assez compris pour lui dire qu'en France il y a bien plus de politesse qu'ici.

– Perchè dunque non ritornate in Francia, gridò imbizzito il mio compagno, se vi è tanta cortesia? Che ci venite a fare qui?

Una potente gomitata mia gli tolse il fiato e la parola per continuare. Ma ci volle poi per me – aiutato dall'oste – del bello e del buono a pacificare il focoso armigero francese, assicurandolo che nessuno al mondo s'era burlato di lui e che, appunto perchè essi non comprendevano la lingua italiana, avevano fraintese le nostre parole in dialetto.

Le aveva capite anche troppo bene, l'amico! Come campione militare però bisogna confessare che era in molto difetto; è naturale quindi che fosse anche sempre in sospetto!

Usciti di trattoria, feci una nuova e più solenne filippica all'amico che ad ogni istante con simili imprudenze comprometteva la nostra posizione.

Erano intanto già passati quattro o cinque giorni nè si vedeva alcuno nè si sapeva nulla dei casi nostri.

Incominciavamo, per dir vero, a dubitare della serietà dell'impresa, quando un giorno, camminando per il Corso, vedemmo gran folla di gente sulla piazzetta di S. Marcello e di fronte alla chiesa la carrozza del Papa cogli staffieri smontati e le guardie nobili che facevano ala. Ci fermammo a guardare e di lì a poco vedemmo uscire di chiesa Pio IX in persona, bianco vestito ed attorniato, assediato letteralmente da donnicciuole, da bambini, da vecchi che volevano baciargli la mano e le vesti. Egli benediva tutti e lentamente avanzandosi montò in carrozza; le guardie si misero ai lati di essa e via per il Corso a gran trotto.

Era verso sera, proprio nell'ora in cui il Corso di Roma è più animato. Lo spettacolo che ci si offeriva al passaggio della berlina papale era quello di un'onda marina procedente maestosa. Tutta la gente sostava e si prosternava a terra di mano in mano che la carrozza procedeva. E via via così fino a porta del Popolo.

Noi ci fissammo in viso l'un l'altro come estatici a quello spettacolo; quando rinvenimmo dallo stupore, ci domandammo: Che siam venuti a fare noi in Roma? la rivoluzione?..

Un giorno per il Corso adocchiai uno dei compagni nostri e ammiccatogli feci cenno a lui di seguirmi. Lo trassi in disparte in un vicolo nascosto e presi ad interrogarlo ansiosamente sui nostri disegni e sulle speranze concepite; ma pur troppo compresi ch'ei ne sapeva quanto noi. Uniche notizie che ebbi, furono queste, che essi erano sempre all'Hôtel Roma, come noi al Minerva e che il capo e direttore della cospirazione era Francesco Cucchi.

L'indomani di buon mattino andai all'Hôtel Roma sperando di aver nuove notizie. Erano ancora a letto e faceva loro compagnia quel tipo originalissimo ch'era l'amico Andreuzzi, il giovine. Egli era entusiasta dell'impresa ed io, che n'ero scoraggiatissimo, cadevo proprio a proposito. Mi lamentavo che non si sapeva nulla di nulla ed egli a rispondermi che le rivoluzioni van fatte così, che noi non avevamo altro dovere che di star pronti e quand'era il momento, scendere in piazza.

– E le armi dove sono?

– Le armi ci sono.

– Ma dove?

– Ci sono.

– E la gente?

– C'è.

– Ma dove?

– Ti dico che c'è.

– Ma dove? io non l'ho veduta.

– Non serve: lo devi credere.

– Allora piglieremo Roma colla fede.

– Insomma tu devi tacere.

– La piglieremo col silenzio allora.

– Meglio che colle tue chiacchiere, f… d'un moderato! e giù una grandine di epiteti e di cazzotti dati e scambiati.

Erano queste le nostre esercitazioni, le nostre manovre.

Altro originale per disinvolta sfrontatezza era Augusto Merluzzi, ora morto, poveretto!

Passeggiava un dì per il Corso con uno de' suoi compagni: a un tratto questi vedendo passare una botte diè un grido di stupore, la carrozza fu fermata e ne scese un prete, e lì esclamazioni di stupore e domande:

– Ma come mai ti trovi qui? Ed io che ti credevo a Firenze! Che ci sei venuto a fare? – Il povero amico era impacciato e non sapeva che rispondere e balbettava impaperandosi.

Pronto venne in suo aiuto il Merluzzi:

– Viaggiamo per conto della casa A e trattiamo pure qualche affare per la casa B; siamo qui da parecchi giorni e ci tratterremo ancora dell'altro, se la piazza ci offrirà da lavorare…

– O non mi secchi un po' colle sue chiacchiere! interruppe bruscamente il prete. Questi è mio fratello.

Il merluzzo restò baccalà.

I giorni si seguivano l'uno all'altro e noi continuavamo a fare i viaggiatori, gli inglesi, i touristi ma nell'animo nostro volgevano pensieri tristissimi ed un lento scoraggiamento cominciava ad impadronirsi di noi.

Venne finalmente il momento in cui ci fu annunziata imminente la sommossa, ed anzi fummo avvertiti di tenerci pronti perchè alla sera il Comitato ci avrebbe tolti dall'albergo e trasportati in una casa privata.

Regolammo i nostri conti con l'Hôtel Minerva e alla sera attendevamo i signori del Comitato.

IV.

Casa Giovanelli

Il cosidetto Comitato nazionale romano fu, a dir vero, tutt'altro che benemerito dell'impresa da noi tentata, anzi l'osteggiò a tutto potere, perchè non si agiva d'accordo col governo di re Vittorio.

Chi aiutò realmente il Cucchi, il Castellazzo, il Guerzoni, l'Adamoli, il Pavesi e gli altri capi convenuti qui in Roma, fu il Comitato o Centro d'insurrezione; ed era esso appunto che in quella sera si occupava di noi.

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