Giovanni Boccaccio - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3: краткое содержание, описание и аннотация

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E ancora appo noi son chiamate «eumenide», sí come ne dimostra Ovidio dicendo:

Eumenides tenuere faces de funere raptas , ecc.

E questo è assai chiaro essere intervenuto appo noi in uno sventurato matrimonio. Appo i superiori iddii sono appellate «dire», come per Virgilio si può vedere:

At procul ut Dirae stridorem agnovit et alas,
infelix crines scindit Iuturna solutos , ecc.

Fu Iuturna dea, e questo stridor di queste dire il cognobbe in cielo non in terra. Sono appresso da Virgilio chiamate «uccelli» in questi versi:

Iam iam linquo acies: ne me terrete timentem
obscoenae volucres: alarum verbera nosco , ecc.

Oltre a questo, dice Teodonzio queste furie, appo coloro li quali abitano alle marine, esser chiamate «arpie».]

[Discrivonle similmente con orribili forme, le quali, percioché dall’autore discritte in parte sono, lasceremo stare al presente.]

[Attribuiscono, oltre alle cose dette, a ciascuna di queste furie singulare oficio e spaventevole. E primieramente l’uficio attribuito ad Aletto appare per questi versi di Virgilio:

Cui tristia bella
iraeque insidiaeque et crimina noxia cordi.
Odit et ipse pater Pluton, odére sorores
Tartareae monstrum; tot sese vertit in ora,
tam saevae facies, tot pullulat atra colubris.

E un poco appresso séguita:

Tu potes unanimes armare in praelia fratres
atque odiis versare domos; tu verbera tectis
funereasque inferre faces; tibi nomina mille,
mille nocendi artes , ecc.

A Tesifone dicono quello appartenersi che per gl’infrascritti versi appare; e prima Virgilio dice di lei:

Egrediturque domo, luctus comitatur euntem,
et pavor et terror trepidoque insania vultu , ecc.

A’ quali aggiugne Stazio, dicendo:

Suffusa veneno
tenditur, ac sanie gliscit cutis: igneus atro
ore vapor, quo longa sitis morbique famesque
et populis mors una venit , ecc.

A Megera similmente aspetta quello che per gli infrascritti versi di Claudiano si può comprendere, dove nel libro De laudibus Stiliconis , dice:

Quam penes insani fremitus, animique prophanus
error, et undantes spumis furialibus irae,
non nisi quaesitum cognata caede cruorem,
illicitumque bibit patrius, quem fuderat ensis,
quem dederint fratres , ecc.]

[Ma, accioché noi possiam vedere quello che alla presente intenzione è di bisogno, si vuol guardare ciò che sotto cosí mostruose favole sentissono i poeti, e primieramente quel che volessero dire queste furie essere state figliuole d’Acheronte e della Notte. Della qual cosa pare che questa possa essere la ragione: pare che sia di necessitá che, avendo noi separata la ragione e seguendo l’appetito, che, non avvegnendo le cose secondo che noi disideriamo, ne debba turbazion seguitare, la quale ha a tôrre da noi e a rimuovere allegrezza: la qual perturbazion non si riceve se non per malvagio giudicio, procedente da animo offuscato da ignoranza; e perseverando la perturbazione, e, come il piú delle volte avviene, divegnendo, per la perseveranza, maggiore, convien che proceda ad alcuno atto, sí come quella che continuamente molesta il perturbato: e questo atto non regolato dalla ragione sará di necessitá furioso. Per la qual cosa assai convenevolmente si può comprendere questo atto furioso esser nato dall’aver cacciata la letizia e la quiete della mente per la turbazion presa: e questo primo atto potersi chiamare Acheronte, che tanto vuol dire quanto «senza allegrezza». E appresso, avere la perturbazion ricevuta, essere avvenuto per ignoranzia d’animo: e la ignoranzia è similissima alla notte. E cosí, questa seconda cagione, cioè la notte della ignoranza, aver causata la furia della turbazion seguita. E cosí si può dire le furie esser figliuole d’Acheronte e della Notte.]

[Esser queste furie poste al servigio di Plutone, intendendo lui per lo ’nferno, attissimamente si può comprendere e concedere essere stato fatto, percioché, sí come noi veggiamo per li loro effetti, infinite anime traboccano in quello; ma che esse al servigio di Giove sieno, par da maravigliare, conciosiacosaché Iddio sia in tutto contrario ad esse, come colui che in tutte le sue operazioni è pieno d’ottimo consiglio, di pace, di mansuetudine e di misericordia. Ma intorno a questo si può cosí dire: i nostri peccati son tanti, che noi con la nostra perfidia vinciamo la divina pazienza, e commoviamla a dovere operare contra di noi; per la qual cosa esso Iddio (sí come egli dice nel Vangelio: «Io pagherò il nimico mio col nimico mio»), permette a queste furie, quantunque sue nemiche sieno, l’adoperare contra di noi; per la qual cosa, per opera di quelle, le tempeste, le fami, le mortalitá e le guerre vengono sopra di noi. E per questa cosí fatta permissione si posson dire essere e star davanti a Giove e al servigio suo.]

[Appresso è da vedere quel che volesser gli antichi per li nomi di queste furie sentire: e però la prima, la quale è chiamata Aletto, secondo che a Fulgenzio piace, non vuole altro dire che «senza riposo», accioché per questo s’intenda ogni furioso atto prender principio dal continuo e noioso stimolo, il quale l’animo nostro riposar non lascia, quando in perturbazione alcuna caduti siamo di cosa la quale appetisca vendetta. La seconda è chiamata Tesifone, la quale, si come Fulgenzio medesimo dice, è detta cosí, quasi dicessimo « tritonphones », il che in latino viene a dire «voce d’ira»; la qual voce d’ira dobbiamo intendere esser quella, la quale l’animo perturbato e inquietato, con contumelia e vituperio di chi è cagione della sua perturbazione, manda fuori, come sono le villanie le quali gli adirati si dicono insieme. La terza è chiamata Megera, e, secondo che ancora Fulgenzio dice, questo nome vien tanto a dire, quanto «gran litigio»; per lo quale dobbiamo intendere le vendette, l’uccisioni e le guerre, nelle quali si dimostrano le contenzioni grandi e pericolose e piene d’impeti furiosi e di danni inestimabili. E cosí della perturbazion presa non giustamente séguita o nasce l’inquietudine dell’animo; e dalla inquietudine dell’animo si viene ne’ romori e nelle obiurgazioni; e da’ romori si viene nella zuffa e nelle morti e nelle guerre e in ostinati odii.]

[Oltre a questi principali nomi, son chiamate appo quegli d’inferno, cioè appo gli uomini di bassa e infima condizione, «cani»; percioché, pervegnendo essi, o per ingiuria o per altra cagione che ricevano o paia loro ricevere non giustamente, in perturbazione, similmente, per desiderio di vendetta, sono da rabbiosi pensieri angosciati nell’animo; e, non potendo ad altro atto di vendetta procedere, furiosamente gridando, abbaiano come fanno i cani, di quali contro a’ lor maggiori niuna altra cosa adoperano che l’abbaiare.]

[Appo noi, li quali siamo in mezzo tra ’l cielo e lo ’nferno (e perciò si deono per noi intendere gli uomini di mezzano stato), son chiamate «furie» ed «eumenide»; e questo, percioché esse con piú focosa ira incendono il perturbato, in quanto, essendo stimolato, percioché ricever gli pare ingiuria da chi non gli par che piú di lui vaglia, e però, parendogli equivalere e non potere, secondo l’appetito correndo, pervenire alla vendetta, tutto in sé si rode; e ultimamente non potendo a tanta passion sussistere, vergognandosi d’abbaiare come i minor fanno, prorompe furioso all’esecuzion del suo appetito, e le piú delle volte con suo gravissimo danno: e quinci si può dire le furie esser chiamate «eumenide», che tanto viene a dire quanto «buone»; percioché, essendo cosí chiamate per contrario, mai in altro che in male non riescono a ciascun che ad esse si lascia sospignere.]

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