Giovanni Boccaccio - Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3: краткое содержание, описание и аннотация

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[Ma, percioché della favola non s’avrebbe quello che per bisogno fa, se il senso allegorico non si ponesse, verrò a quello. Altra volta è stato mostrato il causato potersi dir figliuolo del causante; e, peroché queste fate sono dalla divina mente causate, dir si possono figliuole di Dio, comeché Demogorgone, di cui Teodonzio dice che figliuole sono, non sia quello iddio del quale io intendo, quantunque, secondo la vana opinione e dannevole d’alcuni antichi, fosse iddio padre di tutti gli altri iddii. E che esse fossero figliuole d’Erebo e della Notte, come a Tullio piace, si dee cosí intendere. È Erebo, come altra volta è detto, secondo la veritá, un luogo della terra profondissimo e nascoso, la qual profonditá è qui da intendere la profonditá della divina mente, la quale è tanta e sí nascosa, che occhio mortale non può ad essa trapassare; e conciosiacosaché la divina mente, sí come se medesima vedente e intendente quello che far dovea, e quindi queste tre fate con la natura delle cose attualmente producesse: assai bene possiam dire loro esser nate del profondissimo e segreto luogo della divina mente. Che esse fossero figliuole della Notte, si può dire cosí essere quanto è a noi: percioché ciascuna cosa, alla quale l’acume del nostro vedere non può trapassare, diciamo essere oscura e simile alla notte; e cosí non potendo trapassare dentro alle segrete cose del divino intelletto, essendo offuscati dalla mortal caligine, quantunque esse in sé sieno splendidissime, a quelle attribuiamo il vizio della debolezza del nostro intelletto, e chiamiamo notte quella cosa che è chiarissimo dí: e cosí queste fate, da noi non intese, diciamo essere state figliuole della Notte.]

[Sono, oltre a’ propri nomi, chiamate queste fate da Tullio Parche; e credo le chiami cosí per contrario, percioché esse non perdonano ad alcuno. «Fato» o «fate» son nominate da « for faris », il quale sta per parlare; e questo è, percioché pare ciò che avviene essere stato prima parlato, prevedendo, da Dio. Il che pare che santo Agostino senta nel libro De civitate Dei : ma, come altra volta è detto, pare che egli abbia in orrore il vocabolo, ammonendone che se alcuno la volontá di Dio o la podestá chiami fato, che esso tenga la sentenza, ma rifreni la lingua in non nominarlo cosí. E questo al presente basti aver detto delle fate.]

Séguita adunque, continuando le parole dell’angelo, l’autore: – «Cerbero vostro, se ben vi ricorda, Ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo». – Perché questo avvenisse è mostrato di sopra, dove di Teseo si ragionò.

«Poi», che queste parole ebbe dette, «si rivolse», l’angelo, «per la strada lorda», del padule di Stige, «E non fe’ motto a noi», percioché l’uno era dannato, e l’altro non era ancora in tanta grazia di Dio, che meritasse o saluto o altro dall’angelo. E se forse dicesse alcuno: esso parlò verso i diavoli, come non poteva egli far motto a costoro, che erano assai men colpevoli? Puossi cosí rispondere: esso aver parlato a’ diavoli in loro confusione e danno; il che costoro non meritavano, percioché non avean commesso quello che i demòni. «Ma fe’ sembiante D’uomo, cui altra cura stringe e morda, Che quella di colui che gli è davante»: e cosí trapassò oltre.

«E noi movemmo». Qui comincia la quinta e ultima parte di questo canto, nella quale l’autor pone come nella cittá íentrassono, e quivi vedessono in arche affocate punire gli eresiarci. Dice adunque: «E noi movemmo i piedi inver’ la terra», cioè verso Dite, «Sicuri appresso le parole sante», dette dall’angelo contro a que’ demòni che contrastavano, le quali quanto a noi furono sonore, ma quanto a color, contro a’ quali furon dette, furon dolorose e piene d’amaritudine. «Dentro v’entrammo»; e cosí del quinto cerchio, qui discende l’autore nel sesto, quantunque alcuna piú aperta menzion non ne faccia; «senza alcuna guerra», cioè senza alcuno impedimento o contrasto.

«Ed io, ch’avea di riguardar disio», sí come universalmente abbiam tutti di veder cose nuove, «La condizion», de’ peccatori, «che tal fortezza serra»; percioché aveva, come di sopra è mostrato, le mura di ferro, ed era guardata da tanti demòni, quanti in su la porta trovarono, e ancora dalle tre furie; «Com’io fu’ dentro, l’occhio intorno invio», si come investigatore delle cose che da vedere e da notar vi fossono; «E veggio ad ogni man», a destra e a sinistra, «grande campagna», cioè grandi spazi in forma di campagna, «Piena di duolo e di tormento rio». [Dice «rio» essere il tormento de’ dannati, per rispetto a quello che la giustizia di Dio dá a coloro li quali de’ loro peccati si purgano; e percioché amenduni cocentissimi sieno, quello de’ dannati sará eterno, dove quello di coloro che si purgano avrá alcuna volta fine.]

E come questa campagna sia fatta, il mostra per due comparazioni, dicendo primieramente esse campagne esser fatte «Sí come ad Arli». Arli è una cittá antica in su il Rodano in Provenza, assai vicina alla foce del mare, cioè lá dove il Rodano mette in mare, «ove il Rodano stagna». È il Rodano un grandissimo fiume il quale esce, secondo che Pomponio Mela nel secondo libro della sua Cosmografia scrive, di quella medesima montagna della quale escono il Danubio e ’l Reno, né è la sua origine guari lontana a quella de’ predetti due; e quindi ne viene in un lago chiamato Lemanno, volgarmente detto Losanna, nel quale alquanto raffrena l’impeto suo; e nondimeno quale egli entra in questo lago, tale se n’esce, cioè di quella grandezza, e quindi per alcuno spazio corre verso occidente, dividendo l’una Gallia dall’altra; e poi, rivolto il corso verso mezzodí, e ricevuto Arari, e ancora Isara e Durenza, correntissimi fiumi, e altri assai, e divenuto grandissimo, corre intra popoli anticamente chiamati i volchi e’ cavari; oltre a’ quali sono gli stagni de’ volchi, e un fiume secondo l’antico nome chiamato Ledu, e un castello chiamato Letara; e quindi diviso mette in mare. E, secondo che scrive Plinio nel libro terzo De historia naturali , nella sua foce fu una terra chiamata Eraclea, oltre alla fossa fatta del Rodano cento passi, da Mario fatta, e quivi essere un ragguardevole stagno, per lo quale l’autor dice: «ove ’l Rodano stagna», cioè fa il predetto stagno; ed estimo io Arli essere quella terra la qual Plinio dice si chiamava Eraclea.

E, oltre a ciò, soggiugne l’autore la comparazion seconda, dicendo: «Si com’a Pola». Pola è una cittá in Istria, la quale, secondo che Giustino dice, fece Medea moglie di Giasone, capitata quivi con lui quando di Colcos veniva, e abitolla di colchi. Il come quivi capitasse, venendo nel mar maggiore, e volendo venire in Tessaglia, sarebbe lunga istoria, e però la lascio. «Presso del Quarnaro, Ch’Italia chiude, e suoi termini bagna». È il Quarnaro un seno di mare, il qual nasce del mare Adriano, e va verso tramontana, e quivi divide Italia dalla Schiavonia; e chiamasi Quarnaro da’ popoli li quali sopr’esso abitarono, che si chiamarono Carnares . «Fanno i sepolcri», li quali in quel luogo sono, «tutto ’l loco varo», cioè incamerellato, come veggiamo sono le fodere de’ vai, il bianco delle quali, quasi in quadro, è attorniato dal vaio grigio, il quale vi si lascia accioché altra fodera che di vaio creduta non fosse da chi la vedesse. È il vero che ad Arli, alquanto fuori della cittá, sono molte arche di pietra, fatte ab antico per sepolture, e quale è grande e quale è piccola, e quale è meglio lavorata e qual non cosí bene, per avventura secondo la possibilitá di coloro li quali fare le fecero; e appaiono in alcune d’esse alcune scritture secondo il costume antico, credo a dimostrazione di chi dentro v’era seppellito. Di queste dicono i paesani una lor favola, affermando in quel luogo essere già stata una gran battaglia tra Guiglielmo d’Oringa e sua gente d’una parte, o vero d’altro prencipe cristiano, e barbari infedeli venuti d’Affrica; ed essere stati uccisi molti cristiani in essa; e che poi la notte seguente, per divino miracolo, essere state quivi quelle arche recate per sepoltura de’ cristiani, e cosí la mattina vegnente tutti i cristiani morti essere stati seppelliti in esse. La qual cosa, quantunque possa essere stata, cioè che l’arche quivi per li morti cristiani recate fossero, io nol credo. Credo bene essere a Dio possibile ciò che gli piace, e che forse quivi fosse una battaglia, e che i cristiani morti fossero seppelliti in quelle arche: ma io credo che quelle arche fossero molto tempo davanti fatte da’ paesani per loro sepolture, come in assai parti del mondo se ne truovano; e quello che di questo credo, quel medesimo credo di quelle che si dice sono a Pola.

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