Umberto Fracchia - Il perduto amore
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– Vuoi sapere come mi piacerebbe un cappellino? Come quello che ho veduto ieri in una vetrina del Corso… Era di paglia blu rossa e nera, lucida lucida tutta arricciata, tutta tutta arricciata la tesa, e poi un nastro di seta scozzese con un gran fiocco da un lato, e la cupola invece liscia e intrecciata, che faceva un disegno di tanti piccoli quadrati neri rossi e blu. E di sotto al fiocco usciva un uccellino piccino ma con una coda lunga e sottile, terminata da piccole pagliuzze d'argento che sembravano goccioline di rugiada. Quella era una bella cuffietta! Coi capelli neri, i colori vivaci mi stanno che è un amore.
– E perchè non dice a Daria che le regali questo cappello?
– Ah! – sospirò. – Se io dovrò aspettare Daria non ne avrò mai di cappelli come quello!
Rimase silenziosa qualche minuto, giocò con i riccioli, poi domandò:
– Quanto immagini che possa costare? Chissà che somma esagerata pensi tu…
Io scossi il capo ed ella soggiunse:
– Venticinque lire…
Mi guardò come aspettando da me qualche gran segno di stupore. Poi disse malinconica:
– A tutti piace Daria. Eppure è molto sciupata… Anche a te piace molto?
– Molto? Non so… – risposi.
Poi domandò ancora:
– Quanti anni hai tu?
– Vent'anni, – risposi.
– E io ne ho quindici, quasi sedici…
Ancora una volta mi guardò, ma quel suo sguardo non mi disse nulla. Mi ero già distratto e già ripensavo che la sera era prossima, e che avrei riveduto Daria fra poco, e forse quel nuovo incontro sarebbe stato decisivo. Forse avrei potuto rimanere solo un istante con lei, forse baciarle la mano, certamente stringergliela fugacemente, nell'ombra discreta o sotto la tovaglia. Ella avrebbe avuto al collo qualche gioiello maraviglioso e la sua gola mi sarebbe sembrata più candida e la sua bocca più rossa. E vidi senza allontanarmi dalla mia cara immagine la piccola irrequieta, la piccola ciarliera, Soave, alzarsi dal mio fianco, la sua testa ricciuta scomparire di nuovo sotto le grandi tese spioventi del cappello, e le sue grosse mani spianare in fretta in fretta le pieghe gualcite della sottana. A un tratto mi si buttò sulla bocca, mi dette un morso, e fuggì via gridando: – Arrivederci quando sarai sveglio!
Ed io non capii allora che era un bacio.
VIII
Prima di andare da Clauss, passai da un mercante e comprai una cravatta, una bella cravatta azzurra con certe macchie d'oro che sembravano stelle in un cielo da presepio. Fra cento e più cravatte, io vidi quella, in fondo a una scatola e la riconobbi. Questo fortunato incontro mi rallegrò, e confortò le mie speranze che, allora, erano in fiore. Poi me ne andai a casa e lo specchio s'ebbe la mia immagine come non l'aveva avuta mai, e vide che le mie mani sapevano, all'occorrenza, fare miracoli. Agghindato, e con un profumino tenue tenue nei capelli, e con quella meravigliosa cravatta, passai l'uscio. Sull'uscio incontrai Sterpoli carico d'involti, con un gran mazzo di fiori in mano, che rincasava.
– Ohè! – gli dissi. – Hai più veduto nessuno? Com'è finita? Bene o male?
– Bene, – rispose; – ogni cosa per la sua strada.
– Ma Daria? Che mi dici di lei?
Egli levò su me uno sguardo sospettoso e brontolò:
– Non scherzare. Non parlar così forte.
Entrò in casa ed io me ne andai.
Poco dopo noi eravamo, tutti e tre, seduti intorno a un piccolo tavolo, sulla veranda, avendo per unico lume la luna. L'aria era così azzurra, trasparente ed immota che ci pareva di essere immersi nella profondità di un lago; di vivere la beata vita dei pesci. Daria portava un abito verde e un nastro pure verde fra i capelli. Dinnanzi a noi fumavano delicate vivande: una moltitudine di gamberetti galleggiava in una salsa verde, fra ciuffi di erbe aromatiche. C'erano, sulla tavola, molti bicchieri, e due anfore di vino chiaro, e molte cose luccicanti. Le mani di Daria si posavano come farfalle, come farfalle, su quelle cose fragili.
– Un po' di vino, – diceva di quando in quando. – Un grano di sale… Una presa di pepe… Un zinzino di pepe, poco, poco…
Seduto di fronte a me, Carlo Clauss la serviva con gesti rapidi, chiedendo ogni momento:
– Così? Ancora? Poco? Basta?
Tre gigli candidi (noi tre!) stavano in un vaso, al centro, tre grandi e candidi gigli, in un vaso, candidi e immobili, d'un'immobilità rara nelle cose della natura. Daria spesso si curvava per odorarli.
– Ecco ciò che basta alla nostra felicità, – diceva Clauss. – Non vi pare? Ah! se sapessimo accontentarci!
– O gioia di vivere! – pensavo io, esaltandomi. Quella cravatta nuova (veramente splendida) mi dava un po' di noia intorno al collo e cercavo di dimenticarla.
– Sì, cara, – continuava Clauss con voce misurata, con sorrisi brevi e volubili, – è così. Dove ci conduce talvolta il nostro insensato desiderio di godere? Eh! eh! Un sorso, un sorso solo, una goccia Daria! No? Non credete che il segreto della felicità sia semplice? Cesare rientra nella propria casa dopo il trionfo, e incontra Calpurnia, o Poppea, (non ricordo bene) sulla porta del triclinio. – Calpurnia, dice, il tuo abito è poco casto per la moglie di Cesare! I suoi occhi cadono sul servo, che la segue agitando i ventagli, e pensa: – Tu sei troppo bello per il marito di Calpurnia. E la sua grande felicità, il suo smisurato orgoglio, annegano in questi due pensieri, in due pensieri tanto volgari. Valeva la pena di soggiogare le Gallie? Soltanto bisognava capire prima che la felicità era nelle belle mani di Calpurnia e non ai confini dell'Impero.
– Sei straordinario! – esclamai. – Bevo alla tua salute e a quella di Cesare!
Daria mi guardava raramente. I nostri ginocchi si sfioravano sotto la tavola. Io guardavo Clauss, pensavo: – T'inganni! Non è venuta per te! E cercavo di cogliere sul volto di Daria un sorriso intelligente, uno di quei sorrisi che sono come fili tesi fra due bocche, fili di ragno, invisibili; un bacio invisibile, un bacio rubato ad occhi che fingono di non voler nulla donare.
– Sono straordinario? – domandò Clauss. – In che cosa, se è lecito?
– Dico che inventi a meraviglia, – risposi. – Questa storiella di Cesare, di Cesare e di Calpurnia, mi sembra nuova. E a voi, Daria?
Sempre in attesa di quel sorriso, volevo che ella si volgesse verso di me. Ma Daria succhiava la coda di un gambero, rosso fra le sue dita bianche, e non si mosse.
– È frutto dell'esperienza, – disse Clauss. – S'impara a inventare. È come dire che sono vecchio.
– Povero Clauss! – mormorò Daria. – È veeecchio!
– Perchè ridete? – domandò Clauss. – Non è poi una cosa tanto ridicola. La vecchiezza ha, per un uomo, il suo lato interessante. E poi, non tutti invecchiano allo stesso modo. Per una donna no; ma per un uomo incomincia una età quasi beata. I desideri possono finalmente conciliarsi con l'impossibilità di soddisfarli; la quale, se non erro, è di tutte le età. E vi sembra una cosa da nulla? Accontentarsi delle gioie possibili? Non scartarne neppure una piccolissima parte? Ah! che scienza difficile!
– Ecco, – continuò dopo un minuto di pausa, rivolto a Daria: – poichè a questo ragazzo piacciono le favole, se permettete, vorrei raccontargliene una brevissima a questo proposito. Non vi annoio? No? Dunque, dimmi: ti sei mai domandato, tu (si rivolse a me, con queste parole), come mai Platone non si sia curato di tramandarci la propria opinione sul sacrificio di Fedone? Se cioè lo stimasse piccolo o grande? In fondo, Fedone era un bello e stupido ragazzo, il quale non possedeva se non quei riccioli biondi che, per onorare Socrate, si tagliò. Quella chioma era senza dubbio tutto il suo orgoglio e la sua massima felicità. Eppure senza esitare un istante si pelò, come un altro si sarebbe ucciso. Ma egli invece continuò a vivere e a mostrarsi in Atene con quella testa pelata. Ebbene: fece malissimo. Io dico che non si sacrificano tanto leggermente riccioli così belli, quando non si ha con che cosa sostituirli.
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