Volodyk - Paolini3-Brisingr

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E soprattutto, Murtagh aveva tratto un innegabile piacere dall'angoscia inflitta a Eragon nel rivelargli che erano entrambi figli di Morzan, primo e ultimo dei Rinnegati, i tredici Cavalieri dei Draghi che avevano tradito i propri compagni consegnandoli a Galbatorix.

Ora, a quattro giorni dalla battaglia, Eragon pensò a un'altra possibile spiegazione: Forse quello che voleva Murtagh era vedere un'altra persona oppressa dallo stesso terribile fardello che lui porta da una vita.

Quale che fosse la verità, Eragon sospettava che Murtagh avesse accettato il suo nuovo ruolo per la stessa ragione per cui un cane, continuamente bastonato senza motivo, un giorno si ribella e morde la mano al padrone. Murtagh era stato sempre bastonato dalla vita, e quella era la sua occasione per ribellarsi a un mondo che non si era mai dimostrato benevolo nei suoi riguardi.

Ma anche se il cuore di Murtagh poteva ancora celare un fievole barlume di bontà, lui ed Eragon erano condannati a essere mortali nemici, perché le promesse fatte da Murtagh nell'antica lingua lo vincolavano a Galbatorix in maniera indissolubile, e per sempre.

Se solo non fosse andato con Ajihad a inseguire gli Urgali nelle gallerie del Farthen Dûr. O se io fossi stato più rapido, i Gemelli...

Eragon, disse Saphira.

Il giovane si riscosse e annuì, grato alla dragonessa per il suo intervento. Si sforzava di non rimuginare su Murtagh e sui loro genitori, ma certi pensieri lo assalivano quando meno se lo aspettava.

Inspirò ed espirò a lungo per schiarirsi la mente, nel tentativo di tornare al qui e ora, ma non ci riuscì.

La mattina dopo la grande battaglia sulle Pianure Ardenti - mentre i Varden erano impegnati a riunirsi e organizzarsi per inseguire l'esercito imperiale, ritiratosi di parecchie miglia a monte del fiume Jiet - Eragon era andato da Nasuada e Arya per spiegare la situazione di Roran e chiedere il permesso di aiutare il cugino. Invano: le due donne si erano opposte con veemenza a quello che Nasuada aveva definito "un piano sconsiderato che avrà conseguenze catastrofiche per tutta Alagaësia se per caso qualcosa va storto!"

L'accalorata discussione era proseguita così a lungo che alla fine Saphira era intervenuta con un ruggito da scuotere le pareti della tenda del comandante. Poi aveva detto: Sono stanca e indolenzita, ed Eragon non riesce a spiegarsi come dovrebbe. Abbiamo cose ben più importanti da fare che non stare qui a gracchiare come cornacchie, giusto?... Bene, ora statemi a sentire.

Era difficile, rifletté Eragon, discutere con un drago.

I dettagli del discorso di Saphira erano complessi, ma la struttura del suo intervento fu sincera e diretta. Saphira sosteneva Eragon perché comprendeva quanto significasse per lui quella missione, e dal canto suo Eragon sosteneva Roran per affetto e senso del dovere, e perché sapeva che il cugino avrebbe tentato di liberare Katrina con o senza di lui, e che Roran non sarebbe mai stato capace di sconfiggere i Ra'zac da solo. Per giunta, finché l'Impero avesse tenuto Katrina prigioniera, Roran e di conseguenza Eragon sarebbero stati vulnerabili alle manipolazioni di Galbatorix. Se l'usurpatore avesse minacciato di uccidere Katrina, Roran non avrebbe avuto altra scelta se non cedere ai suoi ricatti.

Sarebbe stato preferibile, quindi, ricucire questa breccia nelle loro difese prima che i nemici avessero modo di sfruttarla.

Quanto al momento, era perfetto. Né Galbatorix né i Ra'zac si sarebbero aspettati un'incursione nel cuore dell'Impero quando i Varden erano impegnati a combattere le truppe imperiali ai confini del Surda. Murtagh e Castigo erano stati visti volare verso Urû'baen - senza dubbio per ricevere una punizione - e Nasuada e Arya erano d'accordo con Eragon nel ritenere che i due avrebbero proseguito verso nord per affrontare la regina Islanzadi e il suo esercito, una volta che gli elfi avessero fatto la prima mossa rivelando la loro presenza. Tra l'altro, sarebbe stato meglio eliminare i Ra'zac prima che cominciassero a terrorizzare e demoralizzare i guerrieri Varden.

Saphira aveva quindi sottolineato, nella maniera più diplomatica possibile, che se Nasuada avesse esercitato la sua signoria su Eragon e gli avesse proibito di partecipare alla missione, il loro legame sarebbe stato avvelenato da un rancore e da un dissidio tali che avrebbero potuto mettere a rischio la causa dei Varden. Però, aveva detto Saphira, la scelta è tua. Tieni Eragon qui con te, se vuoi. I suoi obblighi non sono i miei, e io ho deciso di accompagnare Roran. Mi sembra una gran bella avventura.

Un debole sorriso affiorò sulle labbra di Eragon al ricordo della scena.

La gravità della dichiarazione di Saphira, unita alla sua inoppugnabile logica, aveva convinto Nasuada e Arya a concedere la loro approvazione, per quanto a malincuore.

Più tardi Nasuada aveva detto: "Eragon, Saphira, noi confidiamo nel vostro discernimento. Per il vostro bene, e per il nostro, spero che questa spedizione vada a buon fine." Eragon non era sicuro di aver interpretato in modo corretto le sue parole, che potevano essere tanto di sincero augurio quanto di velata minaccia.

Eragon aveva passato il resto della giornata a preparare le bisacce, a studiare le mappe dell'Impero con Saphira e a evocare tutti gli incantesimi necessari, come quello per contrastare i tentativi di Galbatorix o dei suoi servi di divinare Roran.

Il mattino dopo, Eragon e Roran erano saliti in groppa a Saphira, che si era subito alzata in volo. Dopo aver bucato la coltre di nubi arancioni che incombeva sulle Pianure Ardenti, la dragonessa aveva virato verso nordest, continuando a volare senza fermarsi finché il sole, attraversato tutto l'arco del cielo, non si era tuffato dietro l'orizzonte in un glorioso tripudio di raggi rossi e gialli.

La prima tappa del viaggio li aveva portati ai confini dell'Impero, in una zona scarsamente abitata. Poi avevano cambiato direzione, volando a ovest verso Dras-Leona e l'Helgrind, continuando a viaggiare di notte per evitare di essere notati da uno dei tanti piccoli villaggi sparsi per la grande pianura che li separava dalla loro meta.

Eragon e Roran erano stati costretti ad avvolgersi in mantelli e pellicce, e a indossare guanti di lana e cappelli di feltro, perché Saphira aveva deciso di volare a un'altezza superiore a quella della maggior parte dei ghiacciai del paese - dove l'aria gelida e rarefatta trafiggeva i polmoni come una pugnalata - di modo che se un contadino intento a curare un agnello malato nel campo o una sentinella dalla vista acuta avessero guardato in alto mentre passava, l'avrebbero scambiata per un'aquila.

Ovunque andassero, Eragon vedeva i segni della guerra imminente: accampamenti di soldati, carri carichi di viveri raggruppati in cerchio per la notte, e file di uomini con collari di ferro, strappati alle loro case per combattere per Galbatorix. La quantità di risorse messe in campo contro di loro era davvero impressionante.

Verso la fine della seconda notte, l'Helgrind era comparso in lontananza: una massa di pinnacoli frastagliati, foschi e sinistri nella livida luce prima dell'alba. Saphira era atterrata nella conca dove si erano accampati, e avevano trascorso dormendo gran parte del giorno precedente alla ricognizione.

Una colonna di scintille ambrate si sprigionò dai carboni che languivano quando Roran vi gettò sopra un ramo secco. Notò lo sguardo di Eragon e si strinse nelle spalle. «Freddo» disse.

Prima che Eragon avesse modo di rispondere, si udì un fruscio prolungato e stridente, simile a quello di una spada sguainata.

Eragon non pensò; si gettò nella direzione opposta, rotolando su se stesso, poi si rialzò, accovacciato, con il bastone di biancospino pronto a parare un colpo in arrivo. Roran fu altrettanto fulmineo. Afferrò lo scudo da terra, balzò dal tronco dov'era seduto ed estrasse il martello dalla cintura, tutto nel giro di pochi secondi.

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