Volodyk - Paolini3-Brisingr

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«Come mai?»

«Stanotte non attaccheremo comunque: la notte è il momento in cui i Ra'zac sono più forti, e se per caso si trovano da queste parti, sarebbe da stupidi affrontarli mentre siamo in svantaggio. Giusto?»

«Giusto.»

«Perciò aspettiamo l'alba.» Roran indicò gli schiavi incatenati all'altare insanguinato. «Se allora quei poveri disgraziati saranno scomparsi, sapremo che i Ra'zac sono qui e proseguiremo col nostro piano. Altrimenti malediremo la sfortuna di non averli incontrati, libereremo gli schiavi, salveremo Katrina e torneremo dai Varden con lei prima che Murtagh ci rintracci. In un modo o nell'altro, dubito che i Ra'zac lasceranno a lungo Katrina senza sorveglianza, non se Galbatorix vuole lasciarla in vita per poterla usare contro di me.»

Eragon annuì. Avrebbe voluto liberare subito gli schiavi, ma quel gesto avrebbe messo in allarme i loro nemici. E se i Ra'zac fossero venuti a prendersi la cena, lui e Saphira non sarebbero potuti intervenire comunque. Una battaglia in campo aperto fra un drago e i Lethrblaka avrebbe attirato l'attenzione di ogni uomo, donna e bambino nel raggio di molte leghe. Ed Eragon non credeva che lui, Saphira o Roran sarebbero sopravvissuti se Galbatorix avesse saputo che si trovavano da soli entro i confini del suo impero.

Distolse lo sguardo dai due derelitti. Per il loro bene, spero che i Ra'zac si trovino all'altro capo di Alagaësia o che almeno stanotte non abbiano fame.

Dopo essersi scambiati un tacito cenno, Eragon e Roran cominciarono a strisciare all'indietro dal crinale della duna dove si erano nascosti. Una volta in fondo, si alzarono, si volsero e si misero a correre tenendosi il più chini possibile, tra due file di colline. La leggera depressione si fece sempre più profonda, fino a diventare una stretta gola scavata dalle inondazioni, fiancheggiata da lastre di ardesia.

Mentre procedevano a zigzag fra gli alberi di ginepro che costellavano la gola, Eragon alzò lo sguardo e, tra il folto degli aghi, intravide le prime costellazioni brillare nel cielo notturno, fredde e affilate come schegge di ghiaccio su un drappo di velluto. Poi tornò a guardare il terreno per non inciampare e continuò a correre con Roran verso il loro bivacco più a sud.

INTORNO AL FALÒ

Il piccolo cumulo di braci pulsava come il cuore di una bestia gigantesca. Di tanto in tanto, una venatura di scintille dorate serpeggiava lungo la superficie del legno per poi svanire in una fessura incandescente.

I resti morenti del falò che Eragon e Roran avevano acceso proiettavano una fievole luce rossastra che illuminava un tratto di suolo roccioso, qualche cespuglio grigio piombo, l'indistinta massa di un ginepro poco distante e nient'altro.

Eragon sedeva con i piedi nudi rivolti alle braci per godersi il piacevole calore, la schiena contro le ruvide squame della muscolosa zampa di Saphira. Di fronte, Roran era seduto a cavalcioni su di un vecchio tronco cavo, indurito e sbiancato dal sole e dalle intemperie. Ogni volta che si muoveva, il tronco emetteva un acuto scricchiolio che feriva le orecchie di Eragon.

Nella conca regnava il silenzio. Perfino la brace ardeva senza rumore. Roran aveva raccolto soltanto rami secchi senza nemmeno una bolla di umidità per evitare qualsiasi filo di fumo che occhi indiscreti potessero individuare.

Eragon aveva appena finito di raccontare a Saphira com'era andata la giornata. In genere non aveva bisogno di dirle ciò che aveva fatto, giacché i pensieri, i sentimenti e le altre emozioni fluivano tra di loro come acqua fra le sponde di un lago. Ma in quella circostanza si era reso necessario, dato che Eragon aveva accuratamente schermato la propria mente durante la missione di ricognizione, tranne quando l'aveva usata per esplorare il covo dei Ra'zac.

Dopo parecchio tempo Saphira sbadigliò, mostrando la sua spaventosa chiostra di denti. Saranno anche crudeli e malvagi, ma sono colpita da come i Ra'zac riescono a stregare le proprie prede tanto da indurle a voler essere mangiate. Devono essere grandi cacciatori per riuscire a farlo... Magari un giorno potrei provarci anch'io.

Già, disse Eragon, e poi si sentì in dovere di aggiungere: Ma non con le persone. Fallo con le pecore.

Persone, pecore... che differenza fa per un drago? Poi la dragonessa scoppiò in una delle sue possenti risate di gola, un rombo cupo che ricordava quello del tuono.

Eragon scostò la schiena indolenzita dalle dure squame di Saphira e prese il bastone di legno di biancospino che giaceva al suo fianco. Se lo rigirò fra le mani, ammirando il gioco di luci sul levigato intrico di radici in cima e l'aguzzo puntale di metallo graffiato in fondo.

Roran gli aveva spinto il bastone fra le mani prima di lasciare i Varden sulle Pianure Ardenti, dicendo: "Tieni. Me lo ha fatto Fisk dopo che il Ra'zac mi aveva morso la spalla. So che hai perduto la tua spada, e potrebbe esserti utile... Se vuoi un'altra spada non c'è problema, ma ho scoperto che non c'è duello che non si possa vincere con qualche colpo di bastone ben assestato." Nel ricordare il bastone che Brom portava sempre con sé, Eragon aveva deciso di non procurarsi una nuova spada a favore di quel bastone nodoso di biancospino. Dopo aver perso Zar'roc, non aveva alcun desiderio di possederne un'altra, che sarebbe stata di sicuro inferiore. Quella notte aveva irrobustito sia il bastone che il martello di Roran con alcuni incantesimi per impedire alle due armi di spezzarsi se non in condizioni di estrema sollecitazione.

All'improvviso una serie di ricordi inconsapevoli gli affiorò alla mente: Un cielo dal malsano colore arancio e cremisi gli turbinava intorno, mentre Saphira si tuffava in picchiata per inseguire il drago rosso e il suo Cavaliere. Il vento gli ruggiva nelle orecchie... Le dita gli si intorpidirono per l'impatto quando la sua spada cozzò contro quella dell'altro cavaliere mentre duellavano sul terreno... Riuscire a strappare via l'elmo del suo nemico in pieno combattimento solo per scoprire il volto del suo amico e compagno di viaggi di un tempo, Murtagh, che credeva morto... Il ghigno di Murtagh quando gli aveva preso Zar'roc, affermando che la spada rossa gli spettava per diritto ereditario, quale suo fratello maggiore...

Eragon batté le palpebre, disorientato, mentre il fragore e il furore della battaglia svanivano e il gradevole aroma del ginepro prendeva il posto dell'odore del sangue. Si passò la lingua sui denti per lavar via l'amaro sapore di bile che gli riempiva la bocca.

Murtagh.

Il solo nome gli suscitava un tumulto di emozioni contrastanti. Da una parte, Murtagh gli piaceva. Aveva salvato lui e Saphira dai Ra'zac dopo la loro prima, sventurata visita a Dras-Leona; aveva rischiato la vita per aiutare Eragon a fuggire da Gil'ead; aveva combattuto con onore nella battaglia del Farthen Dûr; e, malgrado i tormenti che avrebbe senza dubbio patito come conseguenza del suo atto, aveva scelto d'interpretare gli ordini di Galbatorix in un modo che gli consentisse di lasciare liberi Eragon e Saphira dopo la battaglia delle Pianure Ardenti invece di farli suoi prigionieri. Non era colpa di Murtagh se i Gemelli lo avevano rapito; o se l'uovo del drago rosso, Castigo, si era schiuso davanti a lui; o se Galbatorix aveva scoperto i loro veri nomi, con cui aveva estorto a entrambi il giuramento di fedeltà nell'antica lingua.

Nulla di tutto questo era imputabile a Murtagh. Lui era una vittima del fato, dal giorno stesso in cui era nato.

Eppure... Murtagh poteva anche servire Galbatorix contro la propria volontà, e aborrire le atrocità che il re lo costringeva a commettere, ma una parte di lui sembrava compiacersi del potere appena acquisito. Durante la recente battaglia fra i Varden e l'esercito imperiale sulle Pianure Ardenti, Murtagh aveva individuato il re dei nani, Rothgar, e lo aveva ucciso, anche se Galbatorix non gli aveva ordinato espressamente di farlo. Murtagh aveva lasciato andare Eragon e Saphira, certo, ma solo dopo averli sconfitti in un feroce duello senza esclusione di colpi e aver ascoltato impassibile Eragon che lo implorava di liberarli.

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