Volodyk - Paolini3-Brisingr
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«Che i venti siano favorevoli anche a voi!» gridò Eragon di rimando.
Glaedr virò e puntò verso ovest, costeggiando la foresta - una rotta che lo avrebbe portato all'estremità settentrionale del Lago Isenstar, e poi dal lago fino a Gil'ead - mentre Saphira continuò nella stessa direzione a sudovest.
Volò tutta la notte, atterrando solo per bere, mentre Eragon si sgranchiva le gambe e liberava il corpo. Questa volta, a differenza dell'andata, non incontrarono venti contrari: l'aria rimase limpida e calma, come se perfino la natura fosse ansiosa di farli tornare dai Varden. Quando il sole sorse sul secondo giorno, li trovò già nel cuore del deserto di Hadarac, diretti a sud, così da evitare i confini orientali dell'Impero. E quando il buio avvolse di nuovo la terra e il cielo, e li strinse nel suo freddo abbraccio, Saphira ed Eragon avevano superato le distese sabbiose ed erano tornati a volare sopra i campi verdeggianti dell'Impero, con l'intento di passare fra Urû'baen e il Lago Tüdosten per raggiungere la città di Feinster.
Dopo aver viaggiato ininterrottamente per due giorni e due notti, senza mai dormire, Saphira non fu più in grado di continuare. Atterrata in un boschetto di betulle bianche sulle sponde di un laghetto, si raggomitolò all'ombra e dormì per qualche ora, mentre Eragon restava di guardia e si esercitava a maneggiare Brisingr.
Da quando si erano separati da Oromis e Glaedr, Eragon, pensando a ciò che li attendeva a Feinster, provava un senso di perenne ansia. Sapeva di essere molto più protetto dalla morte e dalle ferite rispetto agli altri guerrieri, ma quando ripensava alle Pianure Ardenti e alla battaglia del Farthen Dûr, quando ricordava la vista del sangue che sprizzava dalle membra tagliate e le urla degli uomini feriti e la sferzata incandescente di una spada che attraversava la sua stessa carne, allora gli si torcevano le budella e i muscoli gli tremavano di energia repressa, e non sapeva se desiderava combattere ogni soldato sulla faccia della terra o fuggire nella direzione opposta per andare a nascondersi nel buco più nero e profondo.
L'ansia peggiorò quando ripresero il viaggio e scorse schiere di uomini armati che marciavano nei campi. Qui e là, colonne di pallido fumo salivano dai villaggi saccheggiati. Lo spettacolo di tanta devastazione gratuita lo nauseò; distolse lo sguardo e strinse la punta cervicale avanti a sé, socchiudendo gli occhi finché l'unica cosa che vide, attraverso la nebbia scura delle ciglia, furono i bianchi calli sulle sue nocche.
Piccolo mio, disse Saphira, i pensieri lenti e affaticati. Lo abbiamo già fatto. Non lasciarti impressionare in questo modo.
Pentito di averla distratta, Eragon le disse: Mi dispiace... Starò bene quando arriveremo. Vorrei solo che fosse già finita.
Lo so.
Eragon tirò su con il naso, asciugandoselo nella manica della tunica. A volte vorrei che combattere mi piacesse come a te. Sarebbe tutto più facile.
Se ti piacesse, disse lei, il mondo intero si prostrerebbe ai nostri piedi, compreso Galbatorix. No, è un bene che tu non condivida la mia brama di sangue. Ci bilanciamo a vicenda, Eragon... Divisi siamo incompleti, ma insieme siamo un intero. Adesso libera la mente da questi pensieri velenosi e fammi un indovinello per tenermi sveglia.
Va bene, disse lui dopo un attimo. Sono rosso come sangue o giallo come veleno, o di ogni altro colore dell'arcobaleno. Sono grande o piccolo, ammirato o calpestato, e spesso riposo avvoltolato. Posso consumare cento pecore, e anche di più. Che cosa sono, sai dirmelo tu?
Un drago, naturalmente, rispose lei senza esitare.
No, un tappeto di lana.
Bah!
Il terzo giorno di viaggio scivolò via con una lentezza esasperante. Gli unici rumori che Eragon sentiva erano il battito delle ali di Saphira, il sibilo regolare del suo respiro ansante e il monotono ruggito dell'aria nelle orecchie. Gli dolevano le gambe e la schiena a furia di stare tanto tempo in sella, ma il suo disagio era minimo in confronto a quello di Saphira: i muscoli le bruciavano di un dolore quasi insopportabile. Eppure la dragonessa non si lamentava e rifiutò l'offerta di Eragon di alleviare la sua sofferenza con un incantesimo, dicendo: Ti servirà ogni oncia di energia quando arriveremo.
Qualche ora dopo il crepuscolo, Saphira sussultò e perse quota di colpo, con una caduta vertiginosa di parecchi piedi.
Eragon si rizzò in sella allarmato e volse lo sguardo in cerca della possibile causa dell'inconveniente, ma in basso vide soltanto oscurità, in alto le stelle che brillavano.
Credo che siamo arrivati sul fiume Jiet, disse Saphira. L'aria qui è fredda e umida come lo è sopra l'acqua.
Allora Feinster non dovrebbe essere molto lontana. Sei sicura di riuscire a trovare la città al buio? Potremmo essere cento miglia più a nord o a sud.
No, non lo siamo. Il mio senso dell'orientamento non sarà infallibile, ma è certamente migliore del tuo o di quello di qualunque altra creatura terrestre. Se le mappe degli elfi che abbiamo visto sono precise, allora possiamo essere fuori rotta al massimo di cinquanta miglia, e da questa altezza riusciremo a vedere la città. Potremo persino fiutare il fumo dei loro comignoli.
E così fu. Quella stessa notte, quando ormai mancavano un paio d'ore all'alba, un opaco rossore illuminò l'orizzonte a ovest. Non appena lo vide, Eragon si volse e prese dalle bisacce l'armatura. Indossò la cotta di maglia, il copricapo di cuoio, l'elmo, i bracciali e gli schinieri. Avrebbe voluto avere con sé anche lo scudo, ma lo aveva lasciato dai Varden prima di correre al Monte Thardûr con Nar Garzhwog. Poi rovistò nelle borse finché non trovò la fiaschetta d'argento di faelnirv che gli aveva dato Oromis. Il contenitore di metallo era freddo. Eragon bevve un piccolo sorso del liquore incantato, che sapeva di bacche di sambuco, idromele e sidro. Gli bruciò la gola e un forte calore gli invase il volto. Nel giro di qualche istante, le virtù tonificanti del faelnirv fecero effetto, e la stanchezza cominciò a svanire.
Eragon agitò la fiaschetta e notò preoccupato che un terzo del prezioso liquore se n'era già andato, anche se ne aveva bevuto soltanto un altro sorso in precedenza. Devo stare più attento, pensò.
Mentre si avvicinavano, il bagliore all'orizzonte si frammentò in migliaia di fonti luminose: piccole lanterne, fuochi da cucina, grandi falò, grosse chiazze di pece ardente che spandevano un acre fumo nero nel cielo notturno. Nella luce rossastra dei fuochi, Eragon vide un oceano di punte di lancia ed elmi che scintillavano ai piedi della grande città fortificata. Le mura brulicavano di figure che scagliavano frecce o rovesciavano enormi calderoni d'olio bollente fra le merlature, tagliavano le funi dei rampini gettati oltre i parapetti e respingevano le sgangherate scale di legno che gli assedianti continuavano ad appoggiare ai bastioni. Gemiti e urla si levavano dal terreno, insieme al rimbombo dell'ariete che cozzava contro le porte di ferro della città.
Gli ultimi residui di stanchezza abbandonarono Eragon mentre scrutava il campo di battaglia, studiando la disposizione degli uomini, delle costruzioni e delle varie macchine belliche. A ridosso delle mura di Feinster c'erano centinaia di baracche decrepite, ammassate l'una sull'altra, con appena lo spazio per far passare un cavallo: erano le abitazioni dei poveri che non potevano permettersi una casa nel corpo principale della città. Le baracche sembravano abbandonate e molte erano state abbattute perché i Varden potessero attaccare in massa le mura. Le più fatiscenti stavano bruciando e sotto lo sguardo di Eragon le fiamme continuavano a diffondersi, propagandosi da un tetto di paglia all'altro. A est delle baracche, il terreno era solcato da curve linee nere, le trincee che i Varden avevano scavato per proteggere l'accampamento. Dall'altra parte della città, Eragon scorse i moli e le banchine, simili a quelle che aveva visto a Teirm, e poi lo scuro e inquieto oceano che si estendeva a perdita d'occhio.
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