Grazia Deledda - Canne al vento

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«Vero è! Non possiamo fare la sorte», ammise Efix.

«Eppoi, tu credi ch’ella sarebbe felice, sposando zio Pietro? Non basta il pane per renderci felici; adesso me ne accorgo anch’io… Ci vuole altro!»

«Ma tu, dimmi… tu…»

«Io?»

«Sì, tu, sapevi?»

«Che vuoi che ti dica? Un uomo si accorge sempre di queste cose. Ma io ti giuro sull’anima di mia madre; io l’ho sempre rispettata, Noemi, come una cosa sacra… Eppure, sì, te lo dico, perché so che posso dirtelo, solo una volta, quando ella è svenuta ed io ho pianto sopra i suoi occhi, sì, posso dirtelo come potrei dirlo a mia madre, con la stessa innocenza, sì, ci siamo guardati… attraverso le lacrime, e forse allora… forse allora… Non so, ecco; non ti dico altro. Ma forse per questo sono andato via, più che per quanto avevo commesso di male.»

«Lascia ch’io ti domandi un’altra cosa. Quando tu sei venuto al poderetto, l’ultima volta, tu sapevi già?»

«Sapevo già.»

«Ebbene», disse Efix sollevandosi, «tu sei un uomo!»

«Che vuoi?», rispose Giacinto subito lusingato.

«Conosco un po’ la vita, null’altro. Si fa presto a conoscere la vita, quando si nasce dove sono nato io. Ma tu pure conosci la vita, a modo tuo, e per questo ci siamo capiti anche parlando un diverso linguaggio. Ricordati quando scendevo al poderetto… Io giocavo e misi la firma falsa perché volevo pagare il Capitano e far bella figura davanti a lui, tornando. Egli avrebbe detto: quell’infelice s’è sollevato. E invece sono andato più giù, più giù… Ma era come una pazzia che m’era presa: adesso ho aperto gli occhi e vedo dov’è la vera salvezza. Tu, dove l’hai trovata la vera salvezza? Vivendo per gli altri: e così voglio far io, Efix», aggiunse, parlandogli accosto al viso; «sei tu che mi hai salvato: io voglio essere come te… Rispondi, ho ragione? Io ti ho buttato per terra, laggiù ad Oliena, ma anche i santi son stati maltrattati, e per questo non cessano d’essere santi. Rispondi, ho ragione?», ripeté scuotendolo per le spalle. «Ricordi le cose che dicevamo al poderetto? Io le ricordo sempre, e dico appunto a me stesso: Efix ed io siamo due disgraziati, ma siamo veramente uomini tutti e due, più dello zio Pietro, più del Milese, certo! Zio Pietro? Cos’è zio Pietro? Ha lasciato le zie soffrire sole per tanti anni, esposte a tutte le miserie e alle beffe di tutto il paese: e adesso anche lui crede di far bene perché vuole sposare Noemi! Lo fa perché la donna gli piace come donna, come a me piace Grixenda, null’altro. È amore, quello, è carità? E lei fa bene a non volerlo. Fa bene! La approvo! Il vero amore è stato il tuo, verso di loro; e se c’è qualcuno ch’esse dovrebbero amare e sposare, sì, lo dico, saresti tu, non lo zio Pietro… Invece ti han cacciato via come un cane vecchio, adesso che non sei buono più a niente; eppure tu le ami di più per questo, perché il tuo cuore è un vero cuore di uomo. Ebbene, cosa fai adesso? Ohè, uomo!… Vergognati! Non hai pianto abbastanza? Su, coraggio, uomo! Cammina.»

Lo scosse di nuovo afferrandolo da dietro, per gli omeri: ma Efix piangeva piegato in due, con la testa fra le ginocchia, e mentre il suo gemito riempiva il silenzio della notte, egli ricordava il sangue che aveva vomitato davanti alla vecchia chiesa d’Oliena, dopo l’altra scena con Giacinto; e anche adesso gli pareva che tutto il sangue gli uscisse dagli occhi: tutto il sangue cattivo, il sangue del peccato. Il suo corpo ne rimaneva esausto, e l’anima vi si sbatteva dentro, in uno spazio vuoto e nero come la notte; ma le parole d’amore di Giacinto balenavano lucenti sullo sfondo tenebroso, e le sue stesse lagrime lo illuminavano, gli splendevano intorno come stelle.

Rimase una settimana a Nuoro.

Tanto lui che Giacinto aspettavano di vedere da un momento all’altro arrivare Grixenda; ma i giorni passavano ed ella non veniva.

Giacinto non aveva preso ancora una decisione in proposito, ma sembrava tranquillo, lavorava, tornava a casa solo durante l’ora dei pasti, e scherzava col suo padrone di casa domandandogli consiglio sul modo di accogliere la ragazza.

«Perderla certo non voglio, povera orfana! Se la sposassimo con voi? Una donna in casa ci vuole.»

L’ometto lo guardava con rimprovero, ma non parlava, almeno in presenza di Efix. E questo non voleva, a sua volta, forzare la sorte, e pensava ch’era peccato cercare di opporsi ai voleri della provvidenza. Bisognava abbandonarsi a lei, come il seme al vento. Dio sa quello che si fa.

Intanto non si decideva ad andarsene, aspettando Grixenda; e quando non c’era in casa Giacinto scendeva il vicolo, sedeva sul ciglione della valle e spiava la strada bianca ai piedi del Monte. Il palpito del Molino gli dava un senso di commozione, quasi di sgomento: gli pareva il battito d’un cuore, d’un cuore nuovo che ringiovaniva la vecchia terra selvaggia. Là dentro a quel palpito batteva il sangue di Giacinto, ed Efix sentiva voglia di piangere pensando a lui. Eccolo, gli sembra sempre di vederlo, alto, sereno, bianco di farina come una giovine pianta coperta di brina, purificato dal lavoro e dal proposito del bene. Tutti lo amano, ed egli è gentile con tutti. Le donne che portano il frumento al Molino si aggrappano intorno a lui curvo a pesare la farina, e lo guardano con occhi di madre, con occhi d’amore. Efix era stato una sera a trovarlo, e fra il rombare della macchina e l’agitarsi delle figure pallide su uno sfondo ardente, fra l’incrociarsi delle ombre e lo stridere dei pesi, gli era parso di intravedere uno scorcio del Purgatorio, e Giacinto che penava fra i dannati ma aspettando il termine dell’espiazione.

La domenica dopo Pasqua andò a una piccola festa campestre nella chiesetta di Valverde.

Era un pomeriggio freddo e sulla vallata dell’Isalle battuta dal vento di tramontana, con Monte Albo giù in fondo fra le nuvole come una nave incagliata in un mare burrascoso, pareva dominasse ancora l’inverno.

Efix seguiva una fila di paesane avvolte nelle loro tuniche grevi, e col vento che gli batteva sul petto sentiva qualche cosa di nuovo, di forte, penetrargli nel cuore. La gente camminava triste ma tranquilla, come in processione, avviata non a un luogo di festa ma di preghiera: anche una fisarmonica lontana ripeteva il motivo religioso delle laudi sacre, ed egli sentiva che la sua penitenza era cominciata.

Arrivato alla chiesetta, sull’alto della china rocciosa, sedette accanto alla porta e si mise a pregare: gli sembrava che la piccola Madonna guardasse un po’ spaurita dalla sua nicchia umida la gente che andava a turbare la sua solitudine, e che il vento soffiasse sempre più forte e il sole cadesse rapido sopra la valle per costringere gl’importuni ad andarsene. Infatti le donne si avvolgevano meglio nelle loro tuniche e dopo aver recitato il rosario s’avviavano al ritorno.

Non rimasero che una venditrice di torroni e di pupazzi di farina nera ricoperti di zucchero; e due uomini seduti uno per parte davanti alla porta della chiesetta sotto l’atrio in rovina.

Efix sedeva poco distante da loro e li guardava gravemente: li riconosceva, li aveva veduti laggiù alla Festa del Rimedio: erano due mendicanti vestiti decentemente da borghesi, con pantaloni turchini e giacca di fustagno: uno, giovane ancora, alto e curvo, col viso giallo scarnificato ove pareva fosse rimasta la sola pelle sulle ossa, con le palpebre livide abbassate, chiedeva, chiedeva muovendo appena le labbra grigie sui grandi denti sporgenti, come dormisse e parlasse in sogno, indifferente al mondo esterno. L’altro, vecchio ma forte, col viso rosso cremisi congestionato, tutta la persona agitata da un tremito che sembrava finto, aveva messo il cappello fra le sue gambe aperte e di tanto in tanto si curvava a guardarvi dentro le piccole monete.

Ma la sera cadeva rapida, grave di nuvole, e la gente se ne andava. Anche la donna dei confetti chiuse le sue cassette ancora piene e si mise a parlare sdegnosa coi mendicanti.

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