Howard Randall la fissava, la sua foto segnaletica riempiva mezzo schermo mentre un presentatore dall’aria seria leggeva qualcosa su un telesuggeritore. Avery spense la televisione per il disgusto e uscì rapidamente dalla stanza, come se l’immagine di Howard sullo schermo fosse stata un fantasma, teso ad afferrarla.
***
Sapere che Ramirez era stato pronto a trasferirsi da lei (e, a giudicare dall’anello che era stato scoperto nella sua tasca dopo che era stato colpito, a chiederle di sposarlo) rese il suo ritorno a casa un’esperienza tetra. Quando entrò nell’appartamento, si guardò intorno con aria assente. Il posto le sembrava morto. Dava la sensazione che nessuno vi avesse vissuto per anni, un’abitazione in attesa di essere svuotata, ridipinta e affittata a qualcun altro.
Pensò di chiamare Rose. Sarebbero potute stare un po’ insieme e mangiare una pizza. Ma sapeva che la figlia avrebbe voluto parlare di quello che stava succedendo e Avery non era ancora pronta. Di solito elaborava le cose piuttosto rapidamente, ma quella era diverso. Ramirez tra la vita e la morte e Howard in libertà… era troppo.
Tuttavia… anche se l’appartamento non le sembrava più una casa, non vedeva l’ora di stendersi sul divano. E il letto aveva il suo nome scritto sopra.
È ovvio che questa sia ancora casa tua, pensò. Solo perché Ramirez potrebbe non farcela e non venire mai a vivere qui con te, non significa che non sia più casa tua. Non essere così maledettamente drammatica.
Ed eccolo lì, chiaro come il giorno. Fino ad allora era riuscita evitare di pensare alla realtà, ma così esplicitata, era più traumatizzante di quanto avesse previsto.
Con aria mogia si diresse verso il bagno. Si spogliò, entrò nella vasca tirando le tende, e aprì l’acqua calda. Rimase ferma per diversi minuti senza toccare il sapone o lo shampoo, lasciando che l’acqua le sciogliesse i muscoli. Quando ebbe finito di lavarsi, chiuse la doccia, mise il tappo e fece scorrere l’acqua calda nella vasca. Mentre la riempiva si sedette, permettendosi di rilassarsi.
Quando l’acqua arrivò all’orlo, quasi sul punto di rovesciarsi oltre il lato della vasca, chiuse il rubinetto con un dito del piede. Chiuse gli occhi e si mise comoda.
L’unico suono nell’appartamento era il lento e ritmico gocciolio dell’acqua in eccesso dal rubinetto, e il suo respiro.
E poco dopo, un terzo rumore: il pianto di Avery.
Per la maggior parte si era controllata, non volendo mostrare quel lato di sé in ospedale e non volendo che Ramirez la sentisse, se ne era in grado. Qualche volta si era nascosta nel bagno della sua stanza a piangere per un po’, ma non aveva mai lasciato che le lacrime scendessero tanto liberamente.
Singhiozzò nella vasca da bagno e, così come la possibilità che Ramirez non ce la facesse, anche il pianto fu più traumatizzante di quanto non avesse previsto.
Continuò a piangere e non uscì dalla vasca fino a quando l’acqua non divenne tiepida e i piedi e le mani iniziarono a raggrinzirsi. Quando finalmente emerse, profumata nuovamente come un essere umano e idratata dal vapore, si sentiva molto meglio.
Dopo essersi vestita si prese persino il tempo di truccarsi un po’ e di dare un’aria presentabile ai propri capelli. Poi si avventurò in cucina, si versò una tazza di cereali per fare un pranzo tardivo e controllò il telefono, che aveva lasciato sul bancone della cucina.
A quanto pare, era stata piuttosto popolare mentre era in bagno.
Aveva ricevuto tre messaggi vocali e otto messaggi di testo. Venivano tutti da numeri che conosceva. Due erano linee telefoniche della centrale. Gli altri erano di Finley e Connelly. Uno dei messaggi era di O’Malley. Era stato l’ultimo ad arrivare, sette minuti prima, e andava dritto al punto. Il messaggio diceva: Avery, sarà meglio che tu risponda al tuo telefono del cazzo se ti importa del tuo lavoro!
Sapeva che era un bluff, ma il fatto che O’Malley, tra tutti, le avesse scritto, significava che stava succedendo qualcosa. O’Malley scriveva molto raramente. Doveva essere in ballo qualcosa di grosso.
Non si prese la briga di controllare i messaggi vocali. Invece chiamò Connelly. Non voleva parlare con Finley perché l’agente girava troppo intorno agli argomenti scomodi. E non aveva alcuna intenzione di parlare con O’Malley mentre era di cattivo umore.
Connelly rispose al secondo squillo. “Avery. Gesù… dove diavolo sei stata?”
“Nella vasca da bagno.”
“Sei al tuo appartamento?”
“Sì. È un problema? Ho visto un messaggio di O’Malley. Un messaggio. Che sta succedendo laggiù?”
“Senti… potremmo avere un grosso caso per le mani e se te la senti, vorremmo che venissi a lavoro. A dir la verità… anche se non te la senti, O’Malley ti vuole qui.”
“Perché?” chiese lei, incuriosita. “Che cosa c’è?”
“Ecco… vieni in centrale e basta, va bene?”
Lei sospirò, rendendosi conto che non le dispiaceva l’idea di tornare a lavoro. Forse le avrebbe dato un po’ di carica. Magari l’avrebbe tirata fuori dalla depressione in cui si era crogiolata nelle ultime due settimane.
“Che cosa c’è di così maledettamente importante?” domandò.
“C’è stato un omicidio,” disse “E siamo abbastanza certi che sia stato Howard Randall.”
L’ansia di Avery raggiunse il culmine quando arrivò alla centrale. Ovunque c’erano furgoni, completi di giornalisti e presentatori che lottavano per raggiungere le posizioni migliori. C’era così tanta confusione nel parcheggio e nel viale che all’ingresso erano stati mandati agenti in uniforme per tenerla a bada. Avery si diresse verso il retro per raggiungere l’altro ingresso, lontano dalla strada, e vide che anche lì si era parcheggiato qualche furgone dei notiziari.
Tra gli agenti che cercavano di mantenere la calma dietro al palazzo, vide Finley. Quando lui notò la sua auto, si allontanò dalla folla per farle segno, indicandole di avvicinarsi. A quanto pareva, Connelly lo aveva mandato fuori come una specie di guardia, per assicurarsi che riuscisse ad attraversare la ressa di gente.
Lei parcheggiò l’auto e si diresse il più rapidamente possibile verso l’ingresso sul retro. Finley le si affiancò immediatamente. Per via del suo passato come avvocato e dei casi ad alto profilo che aveva seguito da detective, Avery sapeva di avere un volto che le truppe televisive locali riconoscevano facilmente. Fortunatamente grazie a Finley, nessuno riuscì a darle una bella occhiata fino a quando non fu sospinta attraverso la porta sul retro.
“Che diavolo sta succedendo? Abbiamo preso Randall?” chiese Avery.
“Mi piacerebbe molto dirti che cosa è successo,” rispose Finley. “Ma O’Malley mi ha raccomandato di stare zitto. Vuole essere il primo a parlare con te.”
“Mi sembra giusto, suppongo.”
“Come stai, Avery?” chiese Finley mentre si dirigevano rapidamente verso la sala conferenze vicina al retro del quartier generale dell’A1. “Voglio dire, per la faccenda di Ramirez?”
Lei fece del suo meglio per sembrare noncurante. “Sto bene. La sto affrontando.”
Finley capì l’antifona e lasciò perdere quell’argomento. Camminarono in silenzio fino alla sala conferenze.
Avery si aspettava che la stanza fosse piena come il parcheggio. Era certa che un caso in cui fosse coinvolto Howard Randall avrebbe radunato ogni agente disponibile in quella sala. Invece, quando entrò insieme a Finley, vide solo Connelly e O’Malley seduti al grande tavolo. I due uomini già presenti le lanciarono espressioni che in qualche modo erano l’una opposta dell’altra; lo sguardo di Connelly era preoccupato mentre quello di O’Malley sembrava dire Che diavolo devo fare con te adesso?
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