O’Malley si voltò verso Holt.
“Will?”
“Lo sai che cosa ne penso,” rispose Holt con una smorfia.
“Ma farai come ti ha ordinato?”
“È uno sbaglio.”
“Ma?”
“Qualsiasi cosa voglia il sindaco.”
“O’Malley si girò verso Avery.
“Te la senti?” chiese. “Sii sincera. Hai appena chiuso un caso importante di omicidi seriali. La stampa ti ha crocifissa a ogni passo. Ancora una volta avresti tutti gli occhi su di te, ma questa volta anche il sindaco sarà particolarmente attento. Ha chiesto di te nello specifico.”
Il cuore di Avery batté forte. Fare la differenza come agente di polizia era ciò che amava del suo lavoro, ma agognava catturare i serial killer e vendicarne le vittime.
“Abbiamo molti altri casi aperti,” rispose lei. “E un processo.”
“Posso affidare tutto a Thompson e a Jones. Tu potrai supervisionare il loro lavoro. Se ti occupi di questo caso, deve avere la priorità assoluta.”
Avery si voltò verso Ramirez.
“Ci stai?”
“Ci sto.” L’uomo annuì con fermezza.
“Ce ne occuperemo noi allora,” disse lei.
“Bene,” sospirò O’Malley. “Segui il caso. Il capitano Holt e i suoi uomini si occuperanno del corpo e dell’appartamento. Avrai il pieno accesso ai file e la loro totale collaborazione per tutta l’indagine. Will, a chi devono chiedere se hanno bisogno di informazioni?”
“Il detective Simms,” rispose.
“Simms è il capo detective che avete visto questa mattina,” riferì O’Malley, “biondo, occhi scuri, uno tutto d’un pezzo. Il dipartimento A7 si sta occupando sia della barca che dell’appartamento. Simms vi informerà direttamente di ogni indizio che troveranno. Per ora magari sarebbe meglio parlare con la famiglia. Vedi che cosa scopri. Se hai ragione ed è una cosa personale, possono essere coinvolti o avere delle informazioni che potrebbero aiutarci.”
“Ce ne occupiamo subito,” rispose Avery.
*
Una rapida telefonata al detective Simms e Avery scoprì che i genitori della vittima vivevano più a nord, fuori Boston, nella città di Chelsea.
Informare le famiglie era la seconda parte del suo lavoro che Avery detestava di più. Anche se con le persone ci sapeva fare, subito dopo aver saputo della morte di un loro caro c’era un momento in cui emozioni complesse prendevano il sopravvento. Gli psichiatri li definivano i cinque stadi del lutto, ma Avery li considerava una lenta tortura. Prima c’era la negazione. Amici e parenti volevano sapere tutto del corpo, informazioni che avrebbero solo dato loro maggior dolore, e qualsiasi cosa lei gli avesse detto non gli avrebbe fatto accettare la realtà dei fatti. Per seconda arrivava la rabbia: nei confronti della polizia, del mondo, di tutti. Poi era il turno della negoziazione. “È certa che siano morti? Magari sono ancora vivi?” Quelle fasi potevano avvenire tutte in una volta, oppure potevano impiegare anni, o entrambi. Gli ultimi due stadi di solito avvenivano quando Avery se ne era andata: la depressione e l’accettazione.
“Devo dire,” rifletté Ramirez, “che non mi piace trovare cadaveri, ma questo ci lascia liberi di lavorare su un caso e basta. Basta processo e basta scartoffie. Non male, vero? Possiamo fare quello che vogliamo, senza le lungaggini della burocrazia.”
Si tese per baciarle una guancia.
Avery si scostò.
“Non ora,” disse.
“Non c’è problema,” rispose lui con le mani alzate. “Pensavo solo che, sai… ormai tra di noi ci fosse qualcosa.”
“Senti,” disse lei, riflettendo con attenzione sulle sue parole successive. “Tu mi piaci. Mi piaci davvero, ma sta succedendo tutto troppo in fretta.”
“Troppo in fretta?” si lamentò lui. “Ci siamo baciati solo una volta in due mesi!”
“Non è quello che intendo,” spiegò Avery. “Scusa. Quello che sto cercando di dire è che non so se sono pronta per una relazione vera e propria. Siamo partner. Stiamo insieme tutta la settimana. Mi piace flirtare e vederti al mattino. Solo che non so se sono pronta ad andare oltre.”
“Accidenti,” disse Ramirez.
“Dan…”
“No, no.” Sollevò una mano. “Va bene, sul serio. Credo di averlo sempre saputo.”
“Non so dicendo che voglio che finisca tutto,” lo rassicurò Avery.
“Tutto cosa?” chiese lui. “Voglio dire, non lo so nemmeno io! Quando stiamo lavorando, pensi solo all’indagine, e quando provo a vederti dopo il lavoro, è praticamente impossibile. Sei stata più gentile con me quando eri in ospedale che nella vita di tutti i giorni.”
“Non è vero,” ribatté, ma una parte di lei capì che aveva ragione.
“Mi piaci, Avery,” disse lui. “Mi piaci molto. Se hai bisogno di tempo, mi sta bene. Voglio solo essere certo che provi davvero qualcosa per me. Perché se non è così, non voglio sprecare il tuo tempo, né il mio.”
“Sì che provo qualcosa per te,” insistette lei e lo guardò per un rapido istante. “Veramente.”
“Ok,” rispose. “Va bene.”
Avery continuò a guidare, concentrandosi sulla strada e sul nuovo quartiere, costringendosi a ritornare rapidamente in modalità lavorativa.
I genitori di Henrietta Venemeer vivevano in un complesso residenziale appena oltre il cimitero su Central Avenue. Dal detective Simms, Avery aveva saputo che erano entrambi in pensione e probabilmente li avrebbe trovati a casa. Non li aveva chiamati in anticipo. Una dura lezione che aveva imparato era che una chiamata di avvertimento poteva allertare un possibile assassino.
Arrivata all’edificio, Avery parcheggiò ed entrambi si avviarono fino alla porta d’ingresso.
Ramirez suonò il campanello.
Ci fu una lunga pausa prima che una donna anziana rispondesse.
“Sì? Chi è?”
“Signora Venemeer, sono il detective Ramirez del distretto di polizia A1. Sono qui con la mia partner, Avery Black. Possiamo salire per parlare con lei?”
“Chi?”
Avery si fece avanti.
“Polizia,” disse seccamente. “Per favore, apra la porta.”
La porta venne aperta.
Avery sorrise a Ramirez.
“È così che si fa,” disse.
“Non smetti mai di sorprendermi, detective Black.”
I Venemeer vivevano al quinto piano. Quando Avery e Ramirez uscirono dall’ascensore, trovarono una donna anziana che li sbirciava da dietro una porta chiusa.
Avery prese il comando.
“Salve, signora Venemeer,” disse, con la sua voce più chiara e gentile. “Sono la detective Black e questo è il mio partner, il detective Ramirez.” Entrambi mostrarono i distintivi. “Possiamo entrare?”
La signora Venemeer aveva una folta capigliatura disordinata proprio come la figlia, solo che la sua era bianca. Portava grossi occhiali scuri e indossava una camicia da notte bianca.
“Di che cosa si tratta?” si preoccupò.
“Credo che sarebbe meglio se potessimo parlare dentro,” rispose Avery.
“Va bene,” mormorò e li lasciò entrare.
L’appartamento puzzava di canfora e vecchiaia. Sul divano c’era un uomo grasso che Avery immaginò essere il signor Venemeer. Indossava solamente boxer rossi e una maglietta che probabilmente usava per dormire, e non sembrò fare caso alla loro presenza.
Stranamente la signora Venemeer si sedette sul divano accanto al marito, senza dare alcuna indicazione su dove potessero sedersi Avery e Ramirez.
“Che cosa posso fare per voi?” chiese.
Alla televisione davano un gioco a premi. Di tanto in tanto, il marito si raddrizzava per applaudire, si riaccomodava e borbottava tra sé e sé.
“Può spegnere la televisione?” domandò Ramirez.
“Oh, no,” rispose la donna. “John deve guardare La Ruota della Fortuna.”
“Si tratta di vostra figlia,” aggiunse Avery. “Dobbiamo davvero parlare con voi, e vorremmo avere la vostra totale attenzione.”
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