“Bell’auto,” scherzò Avery.
“Questa bellezza mi ha salvato moltissime volte,” raccontò lui orgoglioso mentre accarezzava con affetto il cofano. “Basta che mi vesta da pappone o da ispanico morto di fame e nessuno si accorge di me.”
Uscirono dal parcheggio.
Il Lederman Park era a pochi chilometri dalla stazione di polizia. Procedettero verso ovest su Cambridge Street e voltarono a destra sulla Blossom.
“Quindi,” disse Ramirez, “ho sentito che una volta eri avvocato.”
“Sì?” Cauti occhi blu gli lanciarono uno sguardo di sbieco. “Che altro hai sentito?”
“Avvocato difensore,” continuò lui, “il meglio del meglio. Hai lavorato alla Goldfinch & Seymour. Non robetta. Perché hai smesso?”
“Non lo sai?”
“So che hai difeso un sacco di criminali. Una carriera perfetta, giusto? Hai persino messo dietro le sbarre qualche poliziotto corrotto. Deve essere stata una bella vita. Ottimo stipendio, una serie di successi. Che razza di persona si lascia tutto questo alle spalle per entrare in polizia?”
Avery ripensò alla casa in cui era cresciuta, una piccola fattoria circondata per miglia da terreni pianeggianti. La solitudine non le era mai andata a genio. E neppure gli animali o l’odore di quel posto: feci e pelliccia e piume. Aveva voluto andarsene fin dall’inizio. Lo aveva fatto: Boston. Prima l’università e poi la facoltà di legge e la carriera.
E ora quello.
Le sfuggì un sospiro dalle labbra.
“Immagino che a volte le cose non vadano come abbiamo progettato.”
“Che cosa vorresti dire?”
Nella sua mente vide di nuovo quel sorriso, il sorriso antico e sinistro del vecchio rugoso dagli occhiali spessi. All’inizio era sembrato tanto sincero, così umile e intelligente e onesto. Tutti lo sembravano, pensò.
Fino a quando i processi non si concludevano e loro tornavano alle vite di tutti i giorni, e lei era costretta ad accettare di non essere la salvatrice degli indifesi, la paladina degli oppressi, ma una pedina, una semplice pedina in un gioco troppo complesso e dalle radici troppo profonde per essere cambiato.
“La vita è dura,” affermò lei. “Un giorno pensi di sapere qualcosa e quello seguente, si solleva il velo e tutto cambia.”
Lui annuì.
“Howard Randall,” disse, comprendendo.
Quel nome la rese più consapevole di tutto, l’aria fresca nell’auto, la sua posizione sul sedile, dove si trovavano in città. Nessuno aveva più pronunciato il suo nome da molto tempo, specialmente a lei. Si sentì esposta e vulnerabile, e per reazione irrigidì i muscoli e si sedette più diritta.
“Mi dispiace,” disse lui, “non volevo…”
“Va tutto bene.”
Solo che non andava bene. Dopo di lui era finito tutto. La sua vita. Il suo lavoro. La sua sanità mentale. Il lavoro come avvocato penale era duro, per usare un eufemismo, ma lui avrebbe dovuto mettere tutto a posto. Un geniale professore di Harvard, rispettato da tutti, modesto e gentile, era stato accusato di omicidio. La redenzione di Avery sarebbe dovuta arrivare grazie alla sua difesa. Per una volta, avrebbe potuto fare ciò che aveva sognato sin dall’infanzia: difendere gli innocenti e assicurarsi che la giustizia prevalesse.
Ma non era successo niente del genere.
Il parco era già stato chiuso al pubblico.
Due agenti in borghese bloccarono l’auto di Ramirez, fecero loro cenno di allontanarsi dal parcheggio principale e di andare a sinistra. Tra i poliziotti che erano chiaramente membri del suo dipartimento, Avery notò un certo numero di agenti statali.
“Perché c’è la cavalleria?” chiese.
“Il loro quartier generale è proprio in fondo alla strada.”
Ramirez fermò l’auto e parcheggiò vicino a una fila di volanti della polizia. Il nastro giallo aveva già isolato un’ampia area del parcheggio. Furgoni dei notiziari, giornalisti, telecamere e un gruppetto di sportivi e altri frequentatori abituali del parco erano assiepati vicino al nastro, cercando di vedere che cosa stava succedendo.
“Oltre questo punto non potete avanzare,” disse un poliziotto.
Avery gli mostrò il distintivo.
“Omicidi,” disse. Era la prima volta che pronunciava ad alta voce la sua nuova posizione, e la riempì di gioia.
“Dove è Connelly?” chiese Ramirez.
Un agente indicò tra gli alberi.
Si avviarono sull’erba, a sinistra di un diamante da baseball. Oltre la linea degli alberi furono accolti da altro nastro giallo. Sotto il fitto fogliame c’era un sentiero che si estendeva lungo il fiume Charles. Un solo agente, insieme a uno specialista della scientifica e a un fotografo, era immobile davanti a una panchina.
Avery evitò il contatto iniziale con chi era già sulla scena. Nel corso degli anni aveva scoperto che le interazioni sociali la deconcentravano, e troppo domande e formalità con gli altri inquinavano il suo punto di vista. Purtroppo era un’altra delle sue caratteristiche che le aveva meritato il disprezzo dell’intero dipartimento.
La vittima era una ragazza giovane, appoggiata di traverso sulla panchina. Era chiaramente morta, ma ad eccezione del tono bluastro della pelle, la sua posizione e l’espressione del suo volto avrebbero potuto ingannare un comune passante, prima che si accorgesse che c’era qualcosa che non andava.
Come una ragazza in attesa dell’innamorato, aveva le mani posate sullo schienale della panchina. Su di esse era appoggiato il suo mento. Un sorriso malizioso le incurvava le labbra. Il corpo era voltato, come se fosse stata seduta e si fosse spostata per guardare qualcuno o per fare un profondo respiro. Indossava un abito estivo giallo e infradito bianche, e i bei capelli ramati le ricadevano sulla spalla sinistra. Le sue gambe erano incrociate e le dita dei piedi erano posate delicatamente sul sentiero.
Solo gli occhi della vittima rivelavano il suo tormento. Trasmettevano dolore e incredulità.
Avery sentì una voce nella mente, la voce di un uomo anziano che perseguitava le sue notti e i suoi sogni a occhi aperti. Parlando delle sue vittime, una volte le aveva chiesto: Che cosa sono? Solo contenitori, contenitori senza volto e senza nome, così pochi tra miliardi, in attesa di trovare il loro scopo.
La rabbia le salì nel petto, rabbia per essere stata esposta e umiliata e soprattutto, per la sua vita mandata in frantumi.
Si avvicinò al corpo.
In qualità di avvocato, era stata costretta a esaminare un numero infinito di rapporti della scientifica, foto del coroner e qualsiasi altra cosa avesse a che vedere con il caso. Da poliziotta, le sue conoscenze era notevolmente aumentate, dato che analizzava di persona e quotidianamente le vittime di omicidi, e riusciva a dare valutazioni più oggettive.
Notò che il vestito era stato pulito, e i capelli della vittima erano stati lavati. Sulle unghie dei piedi e delle mani erano stato dato lo smalto di recente, e quando annusò intentamente la sua pelle, sentì l’odore del cocco e di miele, e solo un leggero sentore di formaldeide.
“Hai intenzione di baciarla?” chiese qualcuno.
Avery era china sul corpo della vittima, con le mani dietro la schiena. Sulla panchina c’era un cartellino giallo con il numero ‘4’. Accanto, in grembo alla ragazza, c’era un rigido pelo arancione, a malapena visibile sul giallo dell’abito.
Il supervisore della Omicidi Dylan Connelly era fermo con le mani sui fianchi, in attesa di una risposta. Era un uomo duro e vigoroso, con capelli biondi e mossi e penetranti occhi blu. Il suo petto e le braccia sembravano sul punto di esplodere dalla camicia azzurra. Indossava pantaloni di lino marrone, e grossi stivali neri gli coprivano i piedi. Avery lo aveva notato spesso in ufficio; non era esattamente il suo tipo, ma in lui c’era una ferocia animale che ammirava.
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