“E i nostri sistemi di rifugio?”
Shavitz annuì. “Certo. Presumendo che gli iraniani stiano bluffando e che non abbiano armi nucleari, possiamo dire con sicurezza che, dovessero lanciarci addosso un attacco maggiore, una percentuale del nostro popolo arriverebbe ai rifugi in tempo, alcuni rifugi terrebbero, e dopo, una manciata di sopravvissuti ne uscirebbe sana e salva. Ma non credo neanche per un minuto che ricostruirebbero. Sarebbero traumatizzati e inermi, lì a vagare per un cacchio di paesaggio lunare. Che cosa farebbe allora Hezbollah? O cosa farebbero i turchi? O i siriani? O i sauditi? Accorrerebbero per portare assistenza e conforto agli ultimi rimasugli della società israeliana? Non credo proprio.”
Yonatan fece un respiro profondo. “Abbiamo altre opzioni?”
Shavitz fece spallucce. “Solo una. L’idea che hanno ventilato gli americani. Inviare una piccola squadra di commando per scoprire se queste armi nucleari sono reali, e per determinare dove si trovino. Dopo intervengono per colpire quei punti con precisione, con la nostra partecipazione o meno. Se gli americani compiono un attacco limitato e preciso e distruggono solo le armi nucleari, gli iraniani potrebbero esitare a rispondere.”
Era un’idea che Yonatan odiava. La odiava per tutte le infruttuose perdite di vite – la perdita di agenti preziosi e altamente addestrati già tornati da precedenti infiltrazioni in Iran. La odiava perché sarebbe stato costretto ad aspettare mentre gli agenti sparivano, senza sapere se sarebbero riapparsi e se avrebbero poi saputo qualcosa. A Yonatan la prospettiva di aspettare non piaceva – non quando l’orologio ticchettava e gli iraniani potevano lanciare il loro attacco massiccio in qualsiasi momento.
Yonatan odiava quest’idea in particolare perché sembrava venire dall’interno della Casa Bianca di Susan Hopkins. La Hopkins non aveva idea della realtà della situazione israeliana, e sembrava non le importasse niente. Era come il pappagallo di un proprietario riluttante che aveva insegnato al povero uccello una sola parola.
Palestinesi. Palestinesi. Palestinesi.
“Quali sono le probabilità che una missione del genere abbia successo?” disse Yonatan.
Shavitz scosse la testa. “Molto, molto scarne. Ma il tentativo probabilmente farebbe piacere agli americani, e dimostrerebbe a loro la compostezza che stiamo mostrando. Se dessimo alla cosa un tempo massimo, magari quarantotto ore, potremmo non aver nulla da perdere.”
“Possiamo permetterci tutto quel tempo?”
“Se monitoriamo da vicino gli iraniani in cerca di qualsiasi segnale di un primo attacco, e lanciamo immediatamente il nostro alla quarantottesima ora, dovremmo trovarci bene.”
“E se gli agenti vengono uccisi o catturati?”
“Una squadra americana, con forse una guida israeliana con significativa esperienza iraniana. L’israeliano sarebbe un operativo dalla copertura profonda privo di identità. Se qualcosa va male, neghiamo il coinvolgimento e basta.”
Shavitz fece una lunga pausa. “Ho già l’operativo perfetto in mente.”
12:10 ora della costa orientale
Joint Base Andrews
Contea di Prince George, Maryland
Il piccolo jet azzurro con il logo del Dipartimento di Stato statunitense sulla fiancata si spostò lentamente sulla pista di rullaggio e fece una brusca deviazione a destra. Già autorizzato al decollo, accelerò rapidamente lungo la pista, si staccò dal suolo e salì rapidamente fino a immergersi nelle nuvole. Nel giro di un altro istante, si piegò bruscamente ad angolo a sinistra in direzione dell’oceano Atlantico.
Dentro all’aereo, Luke e la sua squadra erano ricaduti tranquillamente nelle vecchie abitudini – usavano i quattro sedili passeggeri anteriori come area meeting. Avevano stivato i bagagli e l’attrezzatura sui sedili sul retro.
Stavano partendo più tardi del previsto. Il contrattempo era dovuto al fatto che Luke era andato a trovare Gunner a scuola. Aveva promesso al figlio che non sarebbe mai partito senza dirglielo in faccia, e di raccontargli quanto poteva sul luogo in cui si stava recando. Glielo aveva chiesto Gunner, e Luke aveva acconsentito.
Si erano visti in uno stanzino fornito loro dall’assistente del preside – era il luogo in cui tenevano strumenti musicali, per lo più vecchi fiati, molti che si stavano arrugginendo, a vederli.
Gunner l’aveva gestita piuttosto bene, tutto considerato.
“Dove vai?”
Luke aveva scosso la testa. “È secretato, mostriciattolo. Se te lo dico…”
“Poi io lo dico a qualcuno, e quella persona lo dice a qualcuno.”
“Credo che non lo diresti a nessuno. Ma solo saperlo ti metterebbe in pericolo.”
Aveva guardato il ragazzino, che era più che abbattuto.
“Sei preoccupato?” aveva detto Luke.
Gunner aveva scosso la testa. “No. Penso che probabilmente sai prenderti cura di te stesso.”
Adesso, sull’aereo, Luke sorrise tra sé. Buffo ragazzino. Ne aveva passate tante, e in qualche modo non aveva perso il senso dell’umorismo.
Luke guardò la sua squadra. Sul sedile accanto al suo c’era il grande Ed Newsam, con pantaloni cargo cachi e una maglietta a maniche lunghe. Occhi di ghiaccio, enorme, eterno come una montagna. Ed adesso era più vecchio, sicuro. Aveva delle rughe in volto, soprattutto attorno agli occhi, che prima non c’erano. E non aveva più i capelli nero corvino come un tempo – c’erano delle ciocche grigie e bianche in libertà, lì.
Ed aveva lasciato la squadra Recupero ostaggi dell’FBI per quel lavoretto. L’FBI lo stava facendo salire di livello – maggiore anzianità, maggiori responsabilità, maggiori sedute alla scrivania, e molto meno tempo sul campo. A sentir lui, stava cambiando perché voleva vedere ancora dell’azione. Ma la cosa non gli aveva impedito di aspettarsi più soldi. Non importava. Luke era pronto a far urlare di agonia il budget dell’SRT, se era quello che ci voleva per farlo risalire a bordo.
A sinistra e di fronte a Luke, c’era Mark Swann. Teneva le gambe allungate nella navata come sempre, un vecchio paio di jeans strappati e un paio di sneakers rosse Chuck Taylor lì in mezzo per far inciampare chiunque. Swann era cambiato, certo. Sopravvivere a stento alla prigionia dell’ISIS lo aveva reso più serio – non scherzava più sulla pericolosità delle missioni. Luke era contento che fosse tornato – c’era stato un periodo in cui sembrava che potesse diventare un recluso, e che non sarebbe riemerso più dal suo attico con vista sulla spiaggia.
Poi c’era Trudy Wellington. Sedeva giusto davanti a Luke. Aveva ancora i capelli ricci castani, e non era invecchiata per niente. Normale. Nonostante tutto quello che aveva visto e fatto – il periodo da analista nell’SRT originale, la relazione con Don Morris, l’evasione dal carcere e il periodo trascorso nascondendosi – aveva ancora solo trentadue anni. Era snella e attraente come non mai in maglione verde e blue jeans. A un certo punto, aveva eliminato i grandi e rotondi occhiali da gufo orlati di rosso dietro ai quali si nascondeva. Adesso aveva i begli occhi azzurri in primo piano.
Quegli occhi fissavano duramente Luke. Non sembravano amichevoli.
Che cosa sapeva della relazione che aveva con Susan? Era arrabbiata? E perché avrebbe dovuto?
“Lo sai cosa stai facendo, bello?” disse Ed Newsam. Lo disse con indole abbastanza buona, ma sotto c’era un altro sentore.
“Vuoi dire con la missione?”
Ed fece spallucce. “Certo. Cominciamo da lì.”
Luke guardò fuori dal finestrino parlando. Era una giornata luminosa, ma il sole stava già dietro di loro. Tra poco, mentre si spostavano ancora più a est, il cielo avrebbe cominciato a scurirsi. Gli diede la percezione degli eventi che si impennavano in avanti – una sensazione familiare, ma che comunque faceva parte degli aspetti che meno preferiva del lavoro. Era una corsa contro al tempo. Era sempre una corsa contro al tempo, e loro erano molto indietro. La guerra che stavano cercando di evitare era già cominciata.
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