“Uccideteli tutti!” gridava un uomo in qualcosa che pareva trionfo, ma che ovviamente non poteva esserlo. La voce roca era chiara attraverso i muri sottili come carta. “Uccideteli tutti, uno per uno!”
La donna dopo aveva portato fuori i bambini.
Ora sedeva al parco, a piangere silenziosamente, consentendosi di sfogarsi, di buttar fuori, il tutto mentre le orecchie si sintonizzavano cautamente sulle urla e i richiami dei suoi due bambini. I suoi figli, innocenti, sarebbero diventati adulti circondati da nemici che sarebbero stati contenti di vederli con la gola tagliata a morire lentamente di stenti.
“Cosa dobbiamo fare?” sussurrò la donna. “Cosa dobbiamo fare?”
La risposta giunse nella forma di un nuovo suono, all’inizio basso e lontano, che si mescolava con i rumori dei bambini. Presto si fece più vicino e più forte, poi forte e basta. Era un rumore che conosceva fin troppo bene.
Sirene antiaeree.
Sgranò gli occhi.
I bambini avevano smesso di giocare. La guardavano oltre il parco. Le sirene adesso erano forti.
FORTI.
“Mamma!”
Saltò giù dalla panchina e corse verso i bambini. C’era un rifugio antiaereo sotto al condominio – a un quarto di chilometro di distanza.
“Correte!” gridò. “Correte al condominio!”
I bambini non si mossero. Si precipitò da loro e li prese tra le braccia. Poi corse con loro aggrappati a lei, ciascuno a un braccio. Per qualche istante non riconobbe la sua stessa forza. Si fiondò sul manto stradale con quei due preziosi pacchi, che ora piangevano, attorno a loro le sirene, sempre più forti.
Il respiro le risuonava stridulo nelle orecchie.
L’edificio incombeva, sempre più grande e vicino. Ovunque, gente fino a poco prima invisibile correva all’edificio.
D’un tratto giunse un altro rumore – un rumore così forte, così acuto, che la donna pensò che le si sarebbero perforati i timpani. Alzò lo sguardo su un missile che sfrecciava in cielo, proveniente da nord. Si schiantò contro ai piani alti del condominio.
Dall’impatto, le si scosse la terra sotto i piedi. Il mondo parve girarle intorno, anche quando la cima dell’edificio saltò in una massiccia esplosione, muratura di cemento che volava in aria. Quante persone c’erano in quelle stanze? Quanti morti?
Perse l’equilibrio e cadde, mandando i due figli a terra. Strisciò sopra di loro, coprendoli con il proprio corpo appena prima che arrivasse l’onda d’urto. Poi piovve una grandine di detriti dall’esplosione, minuscoli e taglienti ciottoli e frammenti, polvere soffocante, i resti dei vecchi e degli infermi che non erano riusciti a lasciare l’appartamento in tempo.
Le sirene non si fermarono. Giunse l’assordante stridio di un altro missile, che volò sopra la loro testa, seguito dallo scoppio e dal rimbombo quando trovò l’obiettivo, poco lontano.
Ancora e ancora e ancora infuriavano le sirene.
Un altro stridio di missile venne a crescere. Le fischiò nelle orecchie. La venne la pelle d’oca. Si avvicinò ancor di più i figli. Il rumore era troppo forte. Non aveva più senso. Andava oltre l’udito, mostruoso oltre la comprensione umana – davanti a tutto ciò, il suo sistema si spense.
La donna urlava in coppia col missile, ma lei pareva non emettere alcun suono. Non riusciva ad alzare lo sguardo. Non riusciva a muoversi. Ne sentiva l’ombra sopra di sé, a offuscare la luce del giorno.
Poi la colse una nuova luce, una luce accecante.
E dopo, l’oscurità.
6:50 ora della costa orientale
Residenza della Casa Bianca
Washington DC
La luce del mattino si diffondeva dalle tendine, ma Luke non aveva voglia di alzarsi. Giaceva sulla schiena sul lettone, la testa sostenuta da cuscini.
Susan era distesa accanto a lui sotto le lenzuola, la presidente degli Stati Uniti, la testa a riposargli sul petto, i corti capelli biondi sciolti sulla pelle nuda di lui. Si accorse di qualche puntino grigio che il suo acconciatore aveva saltato. O forse era stato fatto di proposito – su un uomo un po’ di grigio indicava esperienza, serietà, solennità.
Lei respirava profondamente.
“Sei sveglia?” le sussurrò.
Sentì il sorriso contro al suo corpo. “Ma certo, sciocchino. Sono sveglia da più di un’ora.”
“A che cosa pensi?” disse lui.
“Tu a che cosa pensi? Questa è la domanda importante.”
“Be’, sono preoccupato.”
Si tirò su sui gomiti, si voltò e lo guardò. Come sempre, lui era meravigliato dalla sua bellezza. Aveva gli occhi azzurro chiaro, e nel volto le vedeva la donna che più di vent’anni prima appariva sulle copertine delle riviste. Stava ringiovanendo, tornando a quei tempi. Lo avrebbe quasi giurato – nel breve periodo in cui erano stati insieme, lei era sembrava farsi un po’ più giovane quasi ogni giorno.
Fece un mezzo sorriso e gli occhi le si strinsero sospettosi. “Luke Stone è preoccupato? L’uomo che fa fuori reti terroristiche con una manata? L’uomo che rovescia sovrani dispotici e allo stesso modo ferma assassini di massa, e tutto prima di colazione? Di che cosa potrà mai essere preoccupato Luke Stone?”
Lui scosse la testa e sorrise, nonostante tutto. “Basta così.”
A dire la verità, era più che preoccupato. Le cose si stavano complicando. Si era impegnato a ricostruire il rapporto con Gunner. Stava andando bene – meglio di quanto avesse potuto sperare – ma i nonni di Gunner avevano ancora la custodia. Luke stava cominciando a pensare che fosse meglio così. Una prolungata battaglia per la custodia contro i benestanti genitori carichi di odio di Becca – sarebbe stata lunga, prolissa, e brutta. E che cosa avrebbe vinto? Luke giocava ancora alla spia. Se si fosse trasferito da lui, Gunner sarebbe finito col trascorrere molto tempo da solo. Nessuna guida, nessuna supervisione – sembrava una situazione schifosa.
Poi c’era la faccenda Susan. Era la presidente degli Stati Uniti. Aveva una famiglia sua e, tecnicamente, era ancora sposata. Il marito, Pierre, sapeva di Luke, e apparentemente era felice per loro. Ma con chiunque altro stavano mantenendo il segreto.
Chi voleva prendere in giro? Non mantenevano nessun segreto.
La squadra di sicurezza di Susan sapeva di lui – era il loro lavoro, sapere cose. E ciò significava che si trattava già di una diffusa e crescente voce all’interno dei servizi. Superava la sicurezza per entrare lì a tarda notte, due, a volte tre notti alla settimana. Oppure entrava come ospite nel pomeriggio, ma non usciva più. La gente che monitorava la videosorveglianza lo vedeva entrare e lasciare la residenza, e prendeva nota degli orari. Il cuoco lo sapeva, di cucinare per due, e le cameriere che portavano fuori i piatti erano due robuste anziane che gli sorridevano, e che scambiavano con lui qualche battuta, e che lo chiamavano “signor Luke”.
Il capo di gabinetto di Susan lo sapeva, il che significava che probabilmente lo sapeva anche Kurt Kimball, e Dio solo sapeva da lì dov’era arrivata la notizia.
Ogni singola persona che già sapeva di lui aveva famiglia, amici e conoscenti. Avevano un locale preferito per la colazione presto, o banconi per il pranzo, o bar dove intrattenevano gli avventori abituali con narrazioni della vita all’interno della Casa Bianca.
La domanda di ieri della giornalista indicava che la voce era già uscita dalla scatola. Erano a una sola fuga di notizie, a una sola telefonata da parte di un seccato membro dello staff del Washington Post o della CNN, da un conclamato circo mediatico ventiquattr’ore su ventiquattro sette giorni su sette.
Luke quella roba non la voleva. Non voleva che Gunner finisse sulla ribalta. Non voleva che il ragazzo finisse sotto custodia dei servizi segreti ovunque andasse. Non voleva che i media lo seguissero o che lo sorvegliassero fuori dalla scuola.
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