“Ehi”, disse con uno sbadiglio mentre Sara entrava. Camilla aveva diciotto anni e per fortuna era simpatica. Era la prima amica che Sara aveva trovato in Florida e aveva garantito per lei presso il proprietario dell'appartamento. Andavano molto d'accordo. Camilla le stava anche insegnando a guidare. Le aveva insegnato come mettere il mascara e come scegliere dei vestiti che valorizzassero il suo fisico. Sara aveva imparato nuovi termini e nuove cose da lei. Era un po' come una sorella maggiore.
Come una sorella maggiore che non ti abbandona con un uomo che non sopporti.
“Ehi tu. Alzati dal letto, sono quasi le dieci”. Sara prese la borsa dal comodino e si assicurò di avere tutto ciò di cui aveva bisogno.
“Ho fatto tardi ieri sera”. Camilla lavorava come cameriera e barista in un ristorante di pesce. “Ma… ehi, guarda qui”. Lei lanciò una spessa mazzetta di denaro, mance della sera prima.
“Fantastico”, mormorò Sara. “Devo andare al lavoro”.
“Bene. Sono libera stasera. Vuoi che ti faccia di nuovo i capelli? Si vede un po' la ricrescita”.
“Sì, lo so, fanno schifo”, scattò Sara irritata.
“Uh, stai calma”. Camilla si accigliò. “Cos'è che ti ha innervosita?”
“Mi dispiace. Tommy fa lo stronzo”.
“Dimentica quel ragazzo. Si dà delle arie”.
“Lo so”. Sara sospirò e si strofinò la faccia. “Ok. Mi alzo”.
“Aspetta. Sembri piuttosto in difficoltà. Vuoi una barra?”
Sara scosse la testa. “No, va tutto bene”. Fece due passi verso la porta. “Fanculo, sì”.
Camilla sorrise e si mise a sedere sul letto. Prese la propria borsa e tirò fuori due oggetti: una bottiglietta arancione senza etichetta e un piccolo cilindro di plastica con un tappo rosso. Tirò fuori una barra di Xanax blu dalla bottiglia, la lasciò cadere nel trita pillole e avvitò saldamente il tappo rosso. “Mano”.
Sara tese la mano destra, con il palmo verso il basso, e Camilla fece cadere un po' di polvere tra pollice e indice. Sara si portò una mano sul viso, si tappò una narice e tirò.
“Bravissima”. Camilla la schiaffeggiò leggermente sul sedere. “Ora esci di qui o farai tardi. Ci vediamo stasera”.
Sara la salutò mentre chiudeva la porta alle sue spalle. Sentiva in bocca il retrogusto amaro della polvere. Non ci sarebbe voluto molto prima che facesse effetto, ma sapeva che un tiro l'avrebbe fatta arrivare a malapena a metà giornata.
Faceva ancora caldo, per essere ottobre. Ma si stava abituando a quel clima. Le piaceva che ci fosse il sole quasi tutto l'anno, e di trovarsi abbastanza vicina alla spiaggia. La sua vita non era fantastica, ma era decisamente meglio di come era due estati fa.
Sara era appena uscita dalla porta quando il suo telefono squillò nella borsa. Sapeva già chi fosse, una delle poche persone che la chiamava di tanto in tanto.
“Ehi”, rispose mentre camminava.
“Ciao”. La voce di Maya sembrava calma, tesa. Sara capì subito che era arrabbiata con qualcuno. “Hai un minuto?”
“Uh, si. Sto andando al lavoro”. Sara si guardò intorno. Non viveva in un brutto quartiere, ma il negozio dell'usato in cui lavorava non era in una bella zona. Non aveva mai avuto problemi, ma rimaneva sempre vigile e teneva la testa alta mentre camminava. Una ragazza distratta dal suo telefono era un potenziale bersaglio. “Che succede?”
“Ehm io...”, Maya esitò. Non era solita essere scontrosa e riluttante. “Ho visto papà ieri sera”.
Sara si fermò, ma non disse nulla. Il suo stomaco si strinse istintivamente come se si stesse preparando per un pugno all'intestino.
“Non... non è andata bene”, Maya sospirò. “Ho urlato alcune cose, sono scappata...”
“Perché me lo stai dicendo?” Chiese Sara.
“Che cosa?”
“Sai che non voglio vederlo. Non voglio sentir parlare di lui. Non voglio nemmeno pensare a lui. Perché me lo dici?”
“Ho solo pensato che avresti voluto saperlo”.
“No”, disse Sara con forza. “Mi spiace deluderti se pensavi di parlare con qualcuno che potesse capirti. Non sono interessata. Ho chiuso con lui. Okay?”
“Sì”. Maya sospirò. “Penso di aver chiuso anche io con lui”.
Sara esitò un momento. Non aveva mai sentito sua sorella così sconfitta. Ma rimase fedele alla sua posizione. “Bene. Continua con la tua vita. Come va la scuola?”
“Va benissimo”, disse Maya. “Sono la migliore della mia classe”.
“Non mi stupisce. Sei molto intelligente”. Sara sorrise mentre riprendeva a camminare. Ma allo stesso tempo, notò dei movimenti sul marciapiede vicino ai suoi piedi. Un'ombra la seguiva. Qualcuno stava camminando non lontano da lei.
Stai diventando paranoica. Non era la prima volta che scambiava un pedone per un inseguitore. Era una conseguenza delle sue esperienze passate. Nonostante ciò, rallentò quando raggiunse l'incrocio successivo per attraversare la strada.
“Ma seriamente”, disse Maya al telefono. “Stai bene?”
“Oh, sì”. Sara si fermò e attese il verde. L'ombra fece lo stesso. “Sì, va tutto bene”. Avrebbe potuto girarsi e guardarlo, fargli capire di essersene accorta, ma continuò a guardare dritto davanti a sé e attese il verde del semaforo.
“Bene. Sono contenta. Proverò a inviarti qualcosa tra un paio di settimane”.
“Non devi farlo”, le disse Sara. Il semaforo diventò verde.
Attraversò rapidamente il passaggio pedonale.
“So di non doverlo fare. Ma voglio farlo. Ad ogni modo, ti lascio andare al lavoro”.
“Domani sono libera”. Sara raggiunse l'angolo opposto e proseguì per la sua strada. L'ombra teneva il passo. “Ti chiamo?”
“Certo. Ti voglio bene”.
“Ti voglio bene anch'io”. Sara terminò la chiamata e infilò il telefono nella borsa. Quindi, senza preavviso, fece una brusca svolta a sinistra e fece qualche passo, solo per uscire dalla sua visuale. Si voltò, incrociò le braccia sul petto e si accigliò mentre il suo inseguitore girava l'angolo dietro di lei.
Praticamente si fermò di colpo quando la vide lì ad aspettarlo.
“Per essere un presunto agente segreto, fai schifo”, gli disse. “Ho visto subito che mi stavi pedinando”.
L'agente Todd Strickland fece un sorrisetto. “Anche a me fa piacere rivederti, Sara”.
Lei non ricambiò il sorriso. “Continui a tenermi d'occhio, vedo”.
“Cosa? No. Ero in zona e stavo lavorando a un'operazione”. Lui fece spallucce. “Ti ho vista per strada, ho pensato di passare a salutarti”.
“Uhm”, disse lei in tono piatto. “In tal caso, ciao. Adesso devo tornare al lavoro. Arrivederci”. Si voltò e se ne andò svelta.
“Ti accompagno”. Accelerò il passo per raggiungerla.
Lei ridacchiò. Strickland era giovane per essere un agente della CIA, non ancora trentenne, e, si rese conto, incredibilmente bello, ma le ricordava anche troppo suo padre. I due erano diventati amici quando Sara e sua sorella erano state rapite dai trafficanti slovacchi. Strickland aveva aiutato a salvarle e in quel momento aveva promesso che, qualunque cosa fosse accaduta, avrebbe fatto tutto il possibile per proteggere le due ragazze.
Apparentemente ciò significava usare le risorse della CIA per sapere dove si trovasse Sara.
“Quindi va tutto bene?” le chiese.
“Già. Benissimo. Adesso vattene”.
Ma era ancora vicino a lei. “Quel ragazzo nel tuo edificio ti dà ancora problemi?”
“Oh mio Dio”, gemette. “Hai messo delle cimici in casa mia?”
“Voglio solo assicurarmi che tu stia bene...”
Lei si girò verso di lui. “Non sei mio padre. Non siamo nemmeno amici. Una volta, forse eri un... Non lo so. Un babysitter. Ma ora sembri un fottuto stalker”. Sapeva che la stava seguendo da un po’ di tempo; questa non era la prima occasione in cui era apparso all'improvviso in Florida. “Non ti voglio qui. Non voglio che mi venga ricordata quella vita. Che ne dici di dirmi cosa vuoi da me, così poi puoi andartene?”
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