Benito Mussolini - Nascita del Fascismo
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Questi signori muovono da un terreno diverso dal nostro. La loro posizione è falsa e difficile. Tutto ciò che è avvenuto, è avvenuto contro di loro. Tutto ciò che sarà, sarà la loro condanna. Non bisogna mai dimenticare che se la tesi dei socialisti ufficiali avesse trionfato, oggi il Kaiser invece di riparare, fuggiasco, in Olanda, sarebbe a Berlino, imperatore di un nuovo Sacro Impero germanico, dilatato a tutta l’Europa. Non si sarebbe levato nessun vento impetuoso di rinnovazione dalle trincee, se il chiodo prussiano fosse diventato l’arbitro del nuovo Impero. Non ci sarebbe stata questa sorprendente primavera di popoli, se la Germania non fosse stata battuta. Se i socialisti ufficiali italiani fossero riusciti ad impedire l’intervento dell’Italia, la storia avrebbe avuto un corso antitetico a quello che ha avuto e il proletariato italiano non si troverebbe oggi in grado di richiedere l’attuazione di alcuni dei suoi postulati fondamentali. Ma bisogna che gli interventisti si decidano. Essi non possono e non devono, in odio ai socialisti ufficiali, respingere il lavoro che è rimasto nel paese e soprattutto quello che tornerà dalle trincee. Che l’atteggiamento dei socialisti ufficiali italiani sia stato e sia ancora miserabile, è verissimo; ma i milioni e milioni di lavoratori che hanno risposto alla fronte o nelle officine all’appello della Patria non possono e non debbono essere confusi coi sedicimila borghesi, semiborghesi inscritti nel pus . Le masse operaie hanno fatto il loro dovere. Hanno, oggi, dei diritti. Gli interventisti, specialmente quelli venuti dalle scuole sovversive, non possono misconoscerli. Il proletariato è, nel suo complesso, diventato nazionale, ma per farlo rimanere in questo quadro, è necessario migliorare il più sollecitamente possibile le sue condizioni di vita.
Il Governo ha un programma? Può darsi. Esiste una commissionissima, ma di organico c’è poco. I socialisti ufficiali hanno il loro programma. Noi dobbiamo avere il nostro. Per ciò che concerne le masse lavoratrici io credo che i postulati da agitare immediatamente possano essere i seguenti:
nove ore di lavoro dal 1° gennaio 1919;
otto ore dal 1° gennaio 1920;
minimi di salario;
interessamento morale e materiale delle maestranze nelle imprese;
partecipazione delle organizzazioni del lavoro alla conferenza della pace, per la trattazione dei problemi internazionali del lavoro.
Mancano venti giorni alla convocazione della nostra Costituente. Apro la discussione. Non chiacchiere, ma fatti. Non divagazioni, ma soluzioni.
Bisogna che il dopo-guerra non sciupi la guerra, ma renda ancora più glorioso — moralmente e materialmente — l’avvenire della Patria.
MUSSOLINI
Da Il Popolo d’Italia , N 316, 14 novembre 1918, V.
ANNO QUINTO
AUDACIA!
Quattro anni fa, in questo giorno, usciva il primo numero del Popolo d’Italia . Preceduto da violente polemiche e da clamorosi episodi che avevano scaldato l’atmosfera, allora un po’ grigia, della politica nazionale, il nuovo giornale era atteso, con ansia che non fu delusa, dalle aristocrazie del popolo italiano. Sono passati, giorno per giorno, quattro anni. Mentre scrivo queste linee, guardo i volumi della collezione e un sentimento composto di orgoglio e di melanconia mi turba l’animo. Quella colonna di volumi è la storia del giornale. È un po’, anche, la mia storia. C’è in essi, documentato, un periodo della mia vita. Ma c’è, soprattutto, una parte della storia nazionale e mondiale.
Il Popolo nacque con un gesto d’audacia. Dopo quattro anni io guardo bene negli occhi questa mia creatura. Non si è corrotta. Non ha degenerato. Non ha messo attorno a sé l’adipe che precede le dissoluzioni. È cresciuta. È più alta. Ma non ha perduto niente della sua elasticità felina. Ecco: io ascolto il cuore. Batte con un ritmo forte e regolare. In questo corpo, niente c’è ancora di flaccido e di cascante. Tutto è romanamente virile. Abbiamo ancora degli odi tenacissimi e degli amori profondi. Abbiamo ancora un arsenale di armi pronto per le battaglie di domani. Abbiamo ancora dei nemici che attendiamo, con implacabilità, al varco. Li andremo — anzi — a cercare. Abbiamo ancora degli amici e non li abbiamo cercati. Io annuncio agli amici che nel quinto anno di vita, il Popolo d’Italia non è ancora diventato una ditta, un’impresa, un’amministrazione, ma è semplicemente l’arma e lo strumento delle nostre idee. Il Popolo d’Italia continuerà a vivere, così, in assoluta libertà, di fronte a tutti e contro tutti. Noi sappiamo navigare anche contro corrente. Lasciamo il belare dogmatico alla vile pecoraia dei tesserati. E scriviamo qui, a chiare lettere, la parola del nostro battesimo: Audacia!
A questa parola abbiamo tenuto fede. Quattro anni di vita, quattro anni di battaglie. Battaglie di idee e di persone. Lo stesso impeto, nelle une e nelle altre. Ne abbiamo schiantate di carogne. Ne abbiamo messe in circolazione di idee. Ne abbiamo movimentati di cervelli. Ne abbiamo eccitati dei cuori! Oh, certo: qualche volta siamo stati eccessivi, fors’anche ingiusti; ma io non mi rimprovero l’eccesso e nemmeno l’ingiustizia. La violenza è immorale quando è fredda e calcolata, non già quando è istintiva e impulsiva. Chi può misurare i colpi nel furore della mischia?
Oh i primi tempi furono duri. Fu necessario di sgominare dapprima gli sporchi moralisti di quella cosa enormemente stupida, impotente e immorale che si chiama socialismo ufficiale italiano. La gente appariva incerta. Predicare la guerra! Suscitare delle energie per la guerra! Nascere e vivere per questo! Ma in poco tempo le nostre penne, che menavano di punta e di taglio, ruppero il ghiaccio dell’indifferenza. Attorno a questa bandiera diventavano sempre più folte le masse. Dopo pochi mesi, era la moltitudine che rombava tutte le sere, in questa bellissima strada dedicata a Paolo da Cannobio e nelle piazze di tutte le città d’Italia. Il Popolo in quei giorni ebbe un pubblico immenso, dal Piemonte alla Sicilia. Giornate indimenticabilmente «radiose». Gli avversari, a guerra scoppiata, pensarono che saremmo morti. Invano. A guerra finita, splendidamente finita, gli avversari ci ricantano la loro nenia funebre. Illusi. Il Popolo vive. Non solo. Si appresta a vivere ancora di più. Il giornale della guerra diventa il giornale della pace. Dopo avere agitato i problemi della guerra, il Popolo si accinge ad agitare e imporre i problemi della pace. Questo giornale è il più vitale d’Italia. Non già perché — ehi tu, là, che strizzi l’occhio della malignazione imbecille, ascolta — non già perché disponga di fondi a milioni. No. Perché non è un giornale come tutti gli altri. Gli altri, su per giù, sono dei giornali, sono — cioè — dei sacchi di notizie, che vengono scodellate quotidianamente al pubblico. Quei giornali non fanno polemiche di idee e meno ancora polemiche di persone. O quando le fanno, sono di una insipidità grottesca. Poi, dietro al foglio non ci vedete nessuno. C’è un impersonalismo che può sembrare, ma non è simpatico. Qui, dietro al Popolo, trovate gli uomini, in carne ed ossa, i quali battagliano senza maschere impersonali, e fanno vibrare nel foglio di carta tutto ciò ch’è il travaglio della loro vita, sì che il foglio stesso appare come una vela gonfiata da un vento impetuoso. Gli altri giornali servono il pubblico; noi non serviamo che le nostre idee. Gli altri giornali cercano il pubblico, noi invece non lo cerchiamo e quando è necessario lo prendiamo a pugni e se si addormenta nella verità rivelata gli suoniamo la sveglia dell’eresia con trombe di fanfare.
Abbiamo la superbia di dire che tutte le mattine noi non mettiamo in circolazione un foglio di carta, ma un frammento di noi stessi, una testimonianza della nostra passione, una vibrazione, un grido delle nostre anime.
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