Rebekah Lewis - Sotto La Luna Del Satiro

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Dal giorno della sua maledizione, Ariston non desidera che una cosa — essere di nuovo umano. Ha cercato in tutto il mondo una ninfa che lo liberasse, ma più di tremila anni di fallimenti lo hanno spinto a una vita di solitudine. Quando sorprende Lily a spiarlo nella foresta, Ariston crede di aver finalmente trovato la salvezza tanto desiderata. Sfortunatamente, dovrà prima riuscire a conquistarla. Sotto la Luna del Satiro una maledizione è stata lanciata e sotto la stessa luna verrà cancellata… …se il destino lo consentirà.  Un lavoro come fotografa freelance va presto a rotoli, quando il fidanzato di Lily Anders la scarica e sparisce dall’area di campeggio, abbandonandola nel bel mezzo dei Monti Blue Ridge. Sentendosi persa, con il cuore infranto e impaurita, Lily segue una misteriosa melodia attraverso la natura incontaminata. Non avrebbe mai potuto immaginare che la fonte della musica le avrebbe rivelato che le creature leggendarie della mitologia greca esistono realmente e che lei stessa potrebbe essere una di loro.  Dal giorno della sua maledizione, Ariston non desidera che una cosa — essere di nuovo umano. Ha cercato in tutto il mondo una ninfa che lo liberasse, ma più di tremila anni di fallimenti lo hanno spinto a una vita di solitudine. Quando sorprende Lily a spiarlo nella foresta, Ariston crede di aver finalmente trovato la salvezza tanto desiderata. Sfortunatamente, dovrà prima riuscire a conquistarla.  Quella che sembrava opera del Fato, intento a unirli in tempo per la Luna del Satiro, si rivela essere un piano elaborato con macabri intenti. Dioniso ha inviato il fratello estraniato di Ariston, Adone, per assicurarsi che la maledizione non venga spezzata e niente getta acqua fredda sulla fiamma della seduzione come un gemello in cerca di vendetta.

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«Ehm… non hai finito.» Che vocina arrogante per una ragazza così carina. Piena di altezzosa presunzione e segno di un’infanzia viziata. Ad Ariston non piacevano le donne come lei. Non sembravano mai contente, persino quando le soddisfaceva.

«Lascia che ti suoni una canzone. Creerà l’atmosfera.» Ariston forzò un sorriso e nel frattempo fece scivolare lo strumento fuori dalla fondina e lo portò alle labbra.

«Sono già dell’umore. Ero così vicina quando hai deciso di fermarti. Così. Vicina. È semplicemente da maleducati tirarsi indietro ora!»

Ignorandola, Ariston soffiò lungo le canne. Quando la melodia per rimpiazzare la realtà con un ricordo onirico fece presa su di lei, si sentì sollevato. Gli occhi di Biondina si fecero vitrei, iniziò a raccogliere i propri abiti e si vestì velocemente, farfugliando oscenità che oscillavano fra l’insulto e il desiderio che accadessero cose sgradevoli ai suoi genitali. Si allontanò per fare ritorno alla sua tenda, ovunque fosse. Auspicabilmente, l’incantesimo sarebbe durato. Ariston non aveva tempo di farle da babysitter per assicurarsene. Sentendosi leggermente in colpa per non averla fatta venire, suonò un paio di altre note veloci… e Biondina vacillò con un gemito. Buon per lei.

È il momento della caccia. Con un gran sorriso, Ariston voltò le spalle a Biondina, augurandole silenziosamente un buon viaggio. Moretta non lo sapeva ancora, ma era una delle cose più interessanti che gli fossero successe da anni. Legò la fondina su una spalla e di traverso sul petto, come se volesse nascondere una pistola, e assicurò il flauto di Pan all’interno. Per i vestiti sarebbe potuto tornare più tardi, perché indossarli gli avrebbe fatto perdere altri secondi preziosi.

Ariston se ne pentì subito dopo essere partito all’inseguimento, rendendosi conto che la sua nudità avrebbe reso Moretta più guardinga, una volta che l’avesse raggiunta. Erano finiti i tempi in cui un satiro nudo sarebbe stato, beh, sorprendente, ma prevedibile. Sarebbe parso non solo come un mostro, ma anche come un pervertito della peggior specie. Lo aveva spiato in assenza dell’incantesimo che gli conferiva un aspetto umano, dunque alterare le sue sembianze non sembrava una priorità. C’erano dettagli più importanti su cui concentrarsi. Come aveva fatto a trovarlo senza seguire la sua canzone fino alla radura e fra le sue braccia – o lo aveva fatto? C’è solo un modo per scoprirlo .

Le sue tracce si rivelarono facili da seguire. Moretta non gli stava certo rendendo le cose difficili con quelle vistose orme nel fango umido. Si era lasciata l’attrezzatura da campeggio alle spalle, il che lo fece esitare. È sola?

Scosse la testa e ridacchiò. Non sarebbe stata sola a lungo. Ariston avrebbe messo presto le sue mani su di lei. Ne era quasi deluso. Quasi. Forse l’ebbrezza di giocare al gatto e al topo era ciò che gli serviva per sedare il suo desiderio. Anche se, una volta che avesse catturato Moretta…

Il rumore di respiri affannati lo fece rallentare. Scostò con delicatezza le lunghe foglie di una felce selvatica e le sue narici si spalancarono in trionfo. Dietro l’angolo, Moretta era piegata in due, con le mani sulle ginocchia, cercando di riprendersi dalla corsa. Sciocca femmina. Da dietro il fogliame, Ariston si concesse di esaminare accuratamente la sua preda. I suoi capelli scuri erano raccolti in una treccia che le arrivava a metà schiena e la sua t-shirt bianca avvolgeva un seno di medie dimensioni. La sua vita sottile si allargava in fianchi ben scolpiti e un sedere stupendo e le sue gambe toniche ostentavano la loro perfezione da sotto l’orlo di un paio di pantaloncini kaki. Ariston sarebbe potuto rimanere ore a fantasticare su cosa avrebbe trovato rimuovendo quegli strati; invece, fece la sua mossa.

Quando entrò nel suo campo visivo, Moretta sussultò. Poi, con gli occhi spalancati, lo fissò spudoratamente, fino a che il suo sguardo atterrò finalmente sui suoi piedi. Ad Ariston sembrò di scorgere sul suo viso un breve lampo di trionfo. Sorrise, mettendo in mostra dei perfetti denti bianchi. Poi il sorrisetto si trasformò in una smorfia. La ragazza sbatté le palpebre e scosse la testa. Quando incontrò di nuovo lo sguardo di Ariston, la paura era ancora là.

«Oh, mio Dio. Oh, mio Dio. Sto avendo le allucinazioni, probabilmente ho la febbre e ho bisogno di uscire da qui, subito .» Annuì dicendo l’ultima parola, come a finalizzare il suo balbettio, confermando una discussione interiore di qualche tipo.

«Non credo che tu stia soffrendo di alcuna malattia. Puoi continuare a fissarmi per tutto il tempo che vuoi. Anche se preferirei che guardassi un po’ più in alto dei miei piedi.» Decisamente più impressionante, quello. Perlomeno, nessuno se ne era mai lamentato prima.

La donna fece un suono sprezzante in fondo alla gola. «Per favore, dimmi che sei un qualche fan di D&D in un costume fatto veramente bene e che non vuoi farmi del male. Inoltre, se hai un cellulare, ti sarei grata se non prendessi il mio commento precedente sul personale e me lo prestassi per un momento.» Ah, bene, questo risolveva una delle sue preoccupazioni; senza un telefonino non poteva aver inviato delle prove o contattato qualcuno per raccontare ciò che aveva visto. A meno che non avesse una macchina fotografica nascosta da qualche parte. Dovrei perquisirla per scoprirlo.

Incrociò le braccia. «Non è un costume.» Ariston strinse gli occhi, colpito da un pensiero. «Non ho sentito la tua attrazione per la mia canzone, come è successo invece per la bionda. Sei un essere magico? Una divinità? Una semidea?» Era vicino a scoprire qualcosa, ma non sapeva esattamente cosa. Era stata lei a causare lo strano temporale della notte precedente? Non c’era stato alcun segnale di pioggia, eppure aveva piovuto. Aveva persino grandinato.

«Giusto… Forse dovresti darmi quel telefono che ho menzionato prima. Penso che potrebbe portare aiuto per entrambi.»

«Non ho con me un cellulare. Dove potrei metterlo? Tra i peli della mia gamba?» Alzò uno zoccolo e lo sventolò in senso antiorario.

Gli occhi di Moretta si spalancarono di nuovo. Perché tutti si agitavano per gli zoccoli, ma non per le corna? Quelle di solito scatenavano delle scrollate di spalle, seguite da qualche battuta. Quasi temessero che iniziasse a fare il verso della capra e a masticare bottoni. L’unica parte davvero importante della sua anatomia gravava pesantemente tra le sue gambe ed era tanto umana quanto quella di qualsiasi mortale. Anche se gli piaceva pensare di essere più dotato.

«Nella tua, ehm, fondina?» La mora indicò il suo flauto di Pan.

«Che cosa?» chiese Ariston.

«Hai chiesto dove avresti potuto mettere il telefonino. C’è una ampia tasca in quella tua specie di borsetta.» La donna si mordicchiò il carnoso labbro inferiore, un’azione che accese un fuoco all’altezza del suo inguine.

«Non è una borsetta. Come puoi anche solo pensarlo? È molto maschile.»

«Sì, sì. Certo.»

«Lo è.» La fitta di desiderio si affievolì quando notò la benda macchiata di sangue, stretta attorno al palmo della sua mano. «Come ti sei ferita?»

Ariston fece inconsciamente un passo verso di lei. Aveva delle scorte mediche nella sua baita. Pur guarendo a una velocità fenomenale, il suo sangue faceva comunque un casino quando scorreva dalla parte sbagliata della sua pelle. Avrebbe potuto ricucirla in un lampo.

La donna si guardò il palmo, quasi sorpresa di vedervi la benda. Poi scosse la testa e disse: «Sì, questa è decisamente la conversazione più strana di sempre. Mi dispiace, ma… devo scappare». Schizzò via nella direzione opposta. Mentre fuggiva, pungenti gocce d’acqua iniziarono a bombardargli la pelle. Doveva essere Moretta a manipolare la pioggia, ma come? Che cos’era? Qualunque cosa fosse, doveva essere in qualche modo collegata alle sue emozioni e lo portò a chiedersi che cosa fosse accaduto per provocare il furioso assalto degli elementi della notte precedente.

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