Misi giù il telefono fino a quando non ripresi a respirare normalmente. Asciugai i palmi sul vestito viola e ripresi in mano il cellulare. Niente di grave. Stavo bene. Il corpo della e-mail era breve:
“ok”
ok. OK!! Due lettere minuscole, una parola. Non molto a cui aggrapparmi. Avrebbe potuto cancellare l’e-mail senza leggerla. Avrebbe potuto leggerla senza rispondere. Avrebbe potuto leggerla e rispondere in modo maleducato (“ok” era maleducato?). O, avrebbe potuto leggerla e rispondere con qualcosa di incoraggiante, tipo “Ci vediamo quando torni” o “Buone vacanze”. Con la mente iniziai a ripercorrere tutti i possibili scenari che coinvolgevano Nick, un’aspirante NASCAR in un parcheggio di roulotte. Così non andava bene.
Scolai il mio punch al rum e cenai con la fetta d’ananas decorativa. Guardai dentro al minibar. Jackpot. Un’intera caraffa di punch al rum mi stava aspettando. Purtroppo, non c’era frutta. Il succo di frutta fa abbastanza bene però. Il punch al rum sarebbe stato un degno sostituto del Bloody Mary. Mi servii un bicchiere.
Nick. Quell’impassibile idiota. Dovetti sforzarmi per non rispondergli. Punch al rum. Mi sforzai più duramente. Più punch al rum. E così presi la mia decisione. Dovevo andarmene da lì. Presi la borsa, il telefono e la chiave della camera e mi diressi al bar che avevo intravisto durante il check-in.
Il bar in questione era un patio coperto in cima ad una collina con vista sulla spiaggia e sull’oceano. Mi trascinai su per gli scalini di pietra e scoprii una grande concentrazione di gente, sia davanti al bancone in mogano che ai tavoli, sparpagliati sul pavimento in ceramica. Alcune persone ballavano, una danza lenta e sensuale, sulle note della musica di un gruppo reggae che non sembrava niente male. Stavano suonando una canzone sui trentacinque gradi all’ombra. La cantante borbottava il ritornello — “Molto caldo, anche all’ o-o-o-ombra.” Mi sedetti al bancone e mi girai ad osservarli, mentre aspettavo che il barista dai rasta biondi mi servisse il mio Bloody Mary. Dopo il primo sorso, mi resi conto che così non andava bene, e ordinai del punch al rum.
“Butti via cocktail perfetto? Qual è tuo problema, amica?” Disse qualcuno, pronunciano “amica” in un modo tipo “amuica”. Ci misi un po’ a capire che era stata la cantante a parlare.
“Ho cambiato idea,” dissi.
“A meno che tu no abbia qualche strana malattia, dà me quella roba,” disse.
Le allungai il bicchiere, ignorando quanto fastidio mi desse il condividere germi con una sconosciuta. Non volevo fare la maleducata. “Ne ho bevuto un sorso,” la avvisai.
Tirò fuori la cannuccia dal bicchiere e la lanciò verso il bidone dall’altro lato del bancone. Non entrò. “Grazie. Cantare fa sete.” Mi porse la mano. “Io Ava.”
Le strinsi la mano. “Katie.”
“Mia gente loro via prima che finiamo nostro ultimo set. Problema.”
Provai a seguire, ma il suo accento spezzato non aiutava. Mi persi metà di quello che disse. Le feci pena.
“ Lah , tu non mi capisci.” Buttò giù un po’ di Bloody Mary. “Ho detto che la band se n’è appena andata e non abbiamo finito il nostro ultimo set. Finiremo nei guai col proprietario,” disse con un accento impeccabile, pronunciando ogni parola perfettamente.
“Oh, wow, sì, adesso capisco.”
“Mi dispiace. Uso la parlata locale quando mi esibisco, o quando parlo con altri locali. Ma posso americanizzarmi al bisogno.”
“Americanizzarti?”
“Parlare come gli americani. È come essere bilingue. Parlare la lingua come la parlano i locali facilita le cose e fa colpo sui turisti. Fa parte dell’essere baan ya .”
“Cosa significa baan ya ?”
“Tradotto, significa ‘nato qui.’ Puoi vivere a St. Marcos da quarant’anni, ma sei davvero dell’isola se sei baan ya . Come me. Ora, ti devo un drink,” disse, facendo un segnale al barista, “E con i miei amici, pago sempre i miei debiti.”
Peacock Flower Resort, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Mi risvegliai su una chaise longue il mattino seguente, con ancora addosso il vestito lungo del giorno precedente. Stessa storia, posto diverso. Ma ero disgustata da me stessa anche più del solito. Ero qui per approfondire la morte dei miei genitori e rimettermi in sesto, il che doveva comprendere darci un taglio col bere. E pensare a qualcos’altro, anziché a Nick. Sembrava che l’unica cosa che avessi fatto finora fosse prendere i miei problemi e portarli in una realtà diversa, facendo del passato il mio presente. Bel lavoro, Katie.
In un momento di panico, mi tornò alla mente la notte prima. L’e-mail di Nick. Il punch al rum. Il bar dell’hotel. Gli avevo mandato un altro messaggio? Oh, ti prego, no.
Mi fiondai in piedi, con il cuore che mi batteva in gola. L’acqua azzurra giocava con la sabbia marrone proprio nella spiaggia davanti ai miei occhi. In lontananza, due bambini piccoli giocavano con i secchielli sul bagnasciuga. Sopra di me, il sole del mattino brillava attraverso le foglie di palma e baciava il tappeto d’erba davanti al patio. La pace di questo posto mi rasserenò. Sarebbe andato tutto bene.
Trovai il cellulare vicino a me e mi misi a scorrere tra messaggi ed e-mail inviate. Nulla, grazie Signore. Ieri sera avevo mandato tutto all’aria. Ma, oggi, avrei iniziato ad indagare sul mistero della morte dei miei genitori e avrei riiniziato da zero, sul fronte personale. Dopo un paio di altre ore di sonno. Mi riaccasciai sulla mia chaise longue.
“ Lah , amica, una serata da rock star,” disse la voce di una donna. Una donna praticamente davanti a me, a quanto pare.
Mi alzai di nuovo, ancora più velocemente. Riconobbi quella voce roca. Anche se il nome della donna a cui apparteneva era un mistero. Mi sforzai. Abigail? Ariel? Eva? No. Ava. Era Ava.
Finsi una risata. “Sì, che serata. Almeno ciò che ricordo.”
Mi affacciai e scrutai la chaise longue dall’altra parte del patio e, eccola, c’era Ava. Si alzò in punta di piedi e stiracchiò le braccia sopra la testa, azione che può avere conseguenze inaspettate se svolta in quel suo mini-vestitino giallo in lycra. Distolsi lo sguardo. Una volta finito, si ributtò sulla sedia, stropicciandosi gli occhi.
“Beh, immagino dovremmo iniziare a prepararci,” disse, gettando le ciglia finte sul tavolino del patio e iniziando a lavorare sull’altro occhio. “Però io voto per una tanica d’acqua e due Excedrin con delle uova strapazzate prima.”
Non avevo la minima idea di cosa stesse parlando. Provai a liberare la mente dalla nebbia della sbornia. Dovevo preoccuparmi? Avevo letto a proposito dei pirati e dei furfanti dei Caraibi. Forse era una truffatrice di qualche tipo. Potevo essenzialmente essere sua prigioniera. Era un po’ esagerato, ma possibile. Per un momento i miei neuroni stavano per ricordare qualcosa, che poi svanì.
Ava continuò a parlare. “Conosco lo chef del ristorante. Ci penserà lui.” Ava si allungò per prendere il telefono dal tavolino del patio al suo fianco.
La ascoltai ordinare nel suo dialetto locale. Nonostante fosse al telefono, continuò il suo rituale — tolse orecchini, un braccialetto e una collana — e si alzò di nuovo finita la chiamata.
“Hop hop, Katie. Ci aspettano giù alla stazione.” Si tolse il vestito in un’unica mossa veloce, rivelando le proprie impeccabili curve color caffelatte, imbrigliate in un completo intimo leopardato in raso. Le mie mani si posarono sulle mie anche sporgenti, Pippi Calzelunghe e Beyoncé. Si infilò nella mia stanza.
Rimisi la mascella al suo posto e ripensai alle sue parole. Stazione, stazione di polizia. Sì. Doveva essere questo. Alcuni frammenti di ieri sera iniziarono a tornarmi alla mente, tra i quali io che racconto ad Ava di essere qui per scoprire cos’è successo davvero ai miei genitori, e lei che chiama un qualche agente di polizia con cui era uscita o che voleva uscire con lei, qualcosa così. Sì. Era così. Mi ricordavo. Sollievo.
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