“Sei stata incredibile,” dissi.
Ava si limitò a sorridere.
Continuammo a guidare per il centro e i suoi edifici in stile danese. Predominavano pareti in stucco e archi di diversi colori e dimensioni. Praticamente tutte le altre costruzioni erano ridotte allo sfacelo. Ad alcune mancava il tetto. Colpa degli uragani, forse? Altre avevano appena una pila di macerie al posto dei muri. La gente del posto si ritrovava a piccoli gruppi agli angoli delle strade. Più spesso di quanto mi aspettassi, sorpassammo dei senzatetto sgangherati che spingevano carrelli pieni di oggetti di fortuna. I turisti, in maglietta e pantaloncini, si facevano strada tra i locali con le loro straripanti buste della spesa e coni gelato tra le mani.
Presto, però, superammo il centro. Ai margini della città, arrivammo ad un edificio in stile danese a due piani, color carta da zucchero. Quartier generale della Polizia. Entrammo nel parcheggio e uscimmo dall’auto.
Era ora di fare la cosa giusta, per mamma e papà.
Taino, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
Ava si era accordata per vedersi con il suo amico alle 11:30 in punto. Entrammo nel vecchio edificio che fungeva da Stazione di Polizia con quindici minuti di ritardo, che Ava commentò essere “quasi in anticipo”. Ava, con il suo fare semplice e sexy, ed io, che cercavo di trattenermi dall’essere sempre di corsa, sfoggiando un ridicolo stile virgineo in confronto a lei, con il mio prendisole bianco. Tolsi gli occhiali da sole e li ficcai nella custodia, in borsa.
“Buongiorno,” annunciai, entrando nella stazione. Un coro di “buongiorno” si propagò per la stanza in risposta. Quasi mi misi a ridere. Ava si girò per guardare se la stessi prendendo in giro, poi si complimentò con me con un cenno del capo.
“Buongiorno. Siamo qui per incontrare Jacoby,” disse all’impiegata seduta alla scrivania dietro al front desk, interrompendo il suo dolce far niente.
Ava fu immediatamente circondata da agenti che offrivano il proprio aiuto, da chi diceva di conoscere Jacoby, di essere Jacoby, di essere più uomo di quanto Jacoby sarebbe mai stato. Affollarono la reception al primo piano, una stanzetta che probabilmente, cent’anni prima, era stata il salotto di qualcuno. Adesso era arredata con sedie pieghevoli e un tavolino da caffè in laminato, ricoperto da riviste e giornali piuttosto consumati. Ne presi uno, mentre Ava teneva a bada gli ammiratori, e lessi oziosamente dell’acquisizione di una compagnia telefonica locale da parte di un magnate dell’isola. Il suo nome era Bonds. Gregory Bonds. Risi tra me e me della mia stupida battuta. Ah, sì, doveva trattarsi del futuro marito di Ava, il ragazzo con un pessimo autista. Lo rimisi a posto, non sopportando più il servilismo del giornalista.
Quando il vero Jacoby si fece avanti, rimasi scioccata. Era una specie di Shrek nero, non il dio color ebano dell’isola che mi ero immaginata al fianco della bellezza sensuale di Ava. Ava si lasciò scappare un urletto adolescenziale — un’altra grande sorpresa — e si lanciò su di lui a braccia aperte, con conseguenti mormorii e grugniti delusi, insieme ad alcuni suoni che sembravano come se qualcuno stesse succhiando la saliva attraverso i denti, da parte del pubblico maschile. Bleah. Gli altri agenti di polizia si dispersero, chi tornando in ufficio o ai piani superiori, la cui scala d’accesso si intravedeva oltre la reception.
“Katie, questo è Jacoby. Siamo inseparabili sin dai tempi dell’asilo. Jacoby, Katie.”
Mi porse la mano. “Darren Jacoby.”
Gliela strinsi. “Un piacere conoscerla, Agente Jacoby. Sono Katie Connell.”
Jacoby indicò una delle porte della stanza e ci spostammo. Aprendo la porta in legno massiccio, ci ritrovammo in una sala conferenze vuota, con spesse pareti in cemento. Costruita per resistere a Madre Natura. C’era un tavolo in metallo ripiegabile, e lo stesso tipo di sedie dell’ingresso. Di nuovo, immaginai come potesse essere stata questa stanza una volta. Una camera da letto, decisi. Ci sedemmo intorno al tavolo.
“Quindi, Ava, immagino di non aver sognato la tua chiamata sexy di ieri notte,” disse.
Se cercate un esempio perfetto di come la speranza sia l’ultima a morire, eccolo.
“Hai sognato che fosse sexy, ma sì, ti ho chiamato,” rispose. “Katie ha bisogno di aiuto. I suoi genitori sono morti a St. Marcos l’anno scorso, erano qui in vacanza.”
Distolse lo sguardo da Ava. “Mi dispiace, Signora Connell,” disse.
“Mi chiami Katie, per favore. Grazie.”
Mi fece segno di continuare a parlare.
Ava non mi aveva chiesto di lasciarla parlare? Decisi che non l’aveva detto seriamente e presi il controllo. “La Polizia ha detto a me e a mio fratello che i nostri genitori sono morti in un incidente stradale. Senza offesa per la Polizia di St. Marcos, ma, date le circostanze per come ce le hanno spiegate, sentivo che c’era qualcosa che non tornava. Non era da loro. Speravo di poter parlare con l’agente che si è occupato del caso e se possibile leggere il loro fascicolo. Appianare i miei dubbi, fare i conti con la situazione,” spiegai.
Strinse gli occhi. “Conosce il nome dell’agente di polizia?” chiese.
“No,” dissi. “Mi dispiace.” Collin l’avrebbe saputo. Avrei dovuto chiederglielo.
“Ha detto che il cognome è Connell?” chiese.
“Sì. Frank e Heather Connell.”
Senza dire altro, spinse indietro la sedia. Una delle gambe aveva perso il cuscinetto ed emise un rumore stridulo che mi ricordò di Shreveport, e di Nick. Jacoby lasciò la stanza.
“Che brusco,” dissi ad Ava.
“Tendono a serrare i ranghi, specialmente se non sei baan ya ,” disse Ava. “Ecco perché ti ho detto ieri sera che sarei dovuta venire con te, e che avremmo dovuto lavorare con Jacoby, almeno il più possibile.”
Mi sorse un dubbio. “Spero non fosse lui l’agente che se ne occupò. In quel caso, l’ho appena accusato di aver fatto un casino.”
Ava rimase seduta con un sorriso da Gioconda sulle labbra. I secondi ticchettavano sull’orologio da muro dietro di lei. Passò un minuto, poi un altro, e poi un altro. Ava tirò fuori il telefono e iniziò a smaneggiare. Tolsi la mano dalla bocca, rendendomi conto troppo tardi che avevo strappato la cuticola dall’indice. Stava sanguinando.
Poi Jacoby fece ritorno, riempiendo la stanza con la sua barba ispida. Teneva un fascicolo sotto il braccio e un piccolo pezzo di carta in mano.
“Ho parlato con il mio capo, il vicecomandante Tutein. Ha detto di darle questo.” Si era americanizzato adesso, a scapito della parlata locale. Mi allungò il pezzo di carta, che aveva i buchi da un lato, rivelando di essere stato strappato da un quaderno.
Lessi le parole scritte a matita: Walker, King’s Cross n°32. “È il nome dell’agente?” chiesi.
“No, l’agente che si occupò del caso è annegato undici mesi fa,” disse Darren, con voce piatta. Non aggiunse altri dettagli, e io non feci domande.
“Mi dispiace. Cosa sa dirmi del fascicolo? Posso vederlo?”
Mi fissò. “È stato un semplice incidente stradale.” Si passò la mano sulla nuca. “Abbiamo un rapporto dell’accaduto. Le ho fatto una copia. Forse la scientifica sa qualcosa di più.”
Tirò fuori la cartella e la aprì. Una pagina. La presi in mano cautamente, il mio sguardo cadde sui nomi Frank Connell e Heather Connell. Lessi il resto velocemente, fino a quando non trovai il nome dell’agente che rispose alla chiamata. Scritto con chiarezza, leggeva Michael Jacoby. Firmato in piccolo e storto, diceva George Tutein. Jacoby. Ma non questo Jacoby, perché questo Jacoby — Darren — era più che vivo.
“Walker è un investigatore privato, l’unico di St. Marcos. Tutein dice che Walker ha dei buoni contatti sull’isola e che lavora per un paio delle aziende locali più importanti. Forse può aiutarla.” Jacoby iniziò a farsi da parte. “Ma i suoi genitori sono morti in un incidente stradale. Non sembra esserci molto altro che possa scoprire.”
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