– Ma in questa prigione ci sarà almeno qualche cosa da bere?
Giovanna fu pronta nella risposta e, con mia meraviglia in un vero tono di conversazione, senz’urlare:
– Anzi! Il dottore, prima di uscire mi ha consegnata questa bottiglia di cognac. Ecco la bottiglia ancora chiusa. Guardi, è intatta.
Mi trovavo in condizione tale che non vedevo per me altra via d’uscita che l’ubriachezza. Ecco dove m’aveva condotto la fiducia in mia moglie!
In quel momento a me pareva che il vizio del fumo non valesse lo sforzo cui m’ero lasciato indurre. Ora non fumavo già da mezz’ora e non ci pensavo affatto, occupato com’ero dal pensiero di mia moglie e del dottor Muli. Ero dunque guarito del tutto, ma irrimediabilmente ridicolo!
Stappai la bottiglia e mi versai un bicchierino del liquido giallo. Giovanna stava a guardarmi a bocca aperta, ma io esitai di offrirgliene.
– Potrò averne dell’altro quando avrò vuotata questa bottiglia?
Giovanna sempre nel più gradevole tono di conversazione mi rassicurò: – Tanto quanto ne vorrà! Per soddisfare un suo desiderio la signora che dirige la dispensa dovrebbe levarsi magari a mezzanotte!
Io non soffersi mai d’avarizia e Giovanna ebbe subito il suo bicchierino colmo all’orlo. Non aveva finito di dire un grazie che già l’aveva vuotato e subito diresse gli occhi vivaci alla bottiglia. Fu perciò lei stessa che mi diede l’idea di ubriacarla. Ma non fu mica facile!
Non saprei ripetere esattamente quello ch’essa mi disse, dopo aver ingoiati varii bicchierini, nel suo puro dialetto triestino, ma ebbi tutta l’impressione di trovarmi da canto una persona che, se non fossi stato stornato dalle mie preoccupazioni, avrei potuto stare a sentire con diletto.
Prima di tutto mi confidò ch’era proprio così che a lei piaceva di lavorare. A tutti a questo mondo sarebbe spettato il diritto di passare ogni giorno un paio d’ore su una poltrona tanto comoda, in faccia ad una bottiglia di liquore buono, di quello che non fa male.
Tentai di conversare anch’io. Le domandai se, quand’era vivo suo marito, il lavoro per lei fosse stato organizzato proprio a quel modo.
Essa si mise a ridere. Da vivo suo marito l’aveva più picchiata che baciata e, in confronto a quello ch’essa aveva dovuto lavorare per lui, ora tutto avrebbe potuto sembrarle un riposo anche prima ch’io a quella casa arrivassi con la mia cura.
Poi Giovanna si fece pensierosa e mi domandò se credevo che i morti vedessero quello che facevano i vivi. Annuii brevemente. Ma essa volle sapere se i morti, quando arrivavano al di là, risapevano tutto quello che quaggiù era avvenuto quand’essi erano stati ancora vivi.
Per un momento la domanda valse proprio a distrarmi. Era stata poi mossa con una voce sempre più soave perché, per non farsi sentire dai morti, Giovanna l’aveva abbassata.
– Voi, dunque – le dissi – avete tradito vostro marito.
Essa mi pregò di non gridare eppoi confessò di averlo tradito, ma soltanto nei primi mesi del loro matrimonio. Poi s’era abituata alle busse e aveva amato il suo uomo.
Per conservare viva la conversazione domandai:
– È dunque la prima delle vostre figliuole che deve la vita a quell’altro?
Sempre a bassa voce essa ammise di crederlo anche in seguito a certe somiglianze. Le doleva molto di aver tradito il marito. Lo diceva, ma sempre ridendo perché son cose di cui si ride anche quando dolgono. Ma solo dacché era morto, perché prima, visto che non sapeva, la cosa non poteva aver avuto importanza.
Spintovi da una certa simpatia fraterna, tentai di lenire il suo dolore e le dissi ch’io credevo che i morti sapessero tutto, ma che di certe cose s’infischiassero.
– Solo i vivi ne soffrono! – esclamai battendo sul tavolo il pugno.
Ne ebbi una contusione alla mano e non c’è di meglio di un dolore fisico per destare delle idee nuove. Intravvidi la possibilità che intanto ch’io mi cruciavo al pensiero che mia moglie approfittasse della mia reclusione per tradirmi, forse il dottore si trovasse tuttavia nella casa di salute, nel quale caso io avrei potuto riavere la mia tranquillità. Pregai Giovanna di andar a vedere, dicendole che sentivo il bisogno di dire qualche cosa al dottore e promettendole in premio l’intera bottiglia. Essa protestò che non amava di bere tanto, ma subito mi compiacque e la sentii arrampicarsi traballando sulla scala di legno fino al secondo piano per uscire dalla nostra clausura. Poi ridiscese, ma scivolò facendo un grande rumore e gridando.
– Che il diavolo ti porti! – mormorai io fervidamente. Se essa si fosse rotto l’osso del collo la mia posizione sarebbe stata semplificata di molto.
Invece arrivò a me sorridendo perché si trovava in quello stato in cui i dolori non dolgono troppo. Mi raccontò di aver parlato con l’infermiere che andava a coricarsi, ma restava a sua disposizione a letto, per il caso in cui fossi divenuto cattivo. Sollevò la mano e con l’indice teso accompagnò quelle parole da un atto di minaccia attenuato da un sorriso. Poi, più seccamente, aggiunse che il dottore non era rientrato dacché era uscito con mia moglie. Proprio da allora! Anzi per qualche ora l’infermiere aveva sperato che fosse ritornato perché un malato avrebbe avuto bisogno di esser visto da lui. Ora non lo sperava più.
Io la guardai indagando se il sorriso che contraeva la sua faccia fosse stereotipato o se fosse nuovo del tutto e originato dal fatto che il dottore si trovava con mia moglie anziché con me, ch’ero il suo paziente. Mi colse un’ira da farmi girare la testa. Devo confessare che, come sempre, nel mio animo lottavano due persone di cui l’una, la più ragionevole, mi diceva: «Imbecille! Perché pensi che tua moglie ti tradisca? Essa non avrebbe il bisogno di rinchiuderti per averne l’opportunità.» L’altra ed era certamente quella che voleva fumare, mi dava pur essa dell’imbecille, ma per gridare: «Non ricordi la comodità che proviene dall’assenza del marito? Col dottore che ora è pagato da te!».
Giovanna, sempre bevendo, disse: – Ho dimenticato di chiudere la porta del secondo piano. Ma non voglio far più quei due piani. Già lassù c’è sempre della gente e lei farebbe una bella figura se tentasse di scappare.
– Già! – feci io con quel minimo d’ipocrisia che occorreva oramai per ingannare la poverina. Poi inghiottii anch’io del cognac e dichiarai che ormai che avevo tanto di quel liquore a mia disposizione, delle sigarette non m’importava più niente. Essa subito mi credette e allora le raccontai che non ero veramente io che volevo svezzarmi dal fumo. Mia moglie lo voleva. Bisognava sapere che quando io arrivavo a fumare una decina di sigarette diventavo terribile. Qualunque donna allora mi fosse stata a tiro si trovava in pericolo.
Giovanna si mise a ridere rumorosamente abbandonandosi sulla sedia:
– Ed è vostra moglie che v’impedisce di fumare le dieci sigarette che occorrono?
– Era proprio così! Almeno a me essa lo impediva.
Non era mica sciocca Giovanna, quand’aveva tanto cognac in corpo. Fu colta da un impeto di riso che quasi la faceva cadere dalla sedia, ma quando il fiato glielo permetteva, con parole spezzate, dipinse un magnifico quadretto suggeritole dalla mia malattia:
– Dieci sigarette... mezz’ora... si punta la sveglia... eppoi...
La corressi:
– Per dieci sigarette io abbisogno di un’ora circa. Poi per aspettarne il pieno effetto occorre un’altra ora circa, dieci minuti di più, dieci di meno...
Improvvisamente Giovanna si fece seria e si levò senza grande fatica dalla sua sedia. Disse che sarebbe andata a coricarsi perché si sentiva un po’ di male alla testa. L’invitai di prendere la bottiglia con sé, perché io ne avevo abbastanza di quel liquore. Ipocritamente dissi che il giorno seguente volevo che mi si procurasse del buon vino.
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