Esculapio mormorò:
– Dietro al civettare c’è sempre qualche cosa di buono. Alla mia età voi non civetterete più.
Oggi so con certezza ch’egli non sapeva proprio niente del civettare. Ne ho cinquantasette degli anni e sono sicuro che se non cesso di fumare o che la psico-analisi non mi guarisca, la mia ultima occhiata dal mio letto di morte sarà l’espressione del mio desiderio per la mia infermiera, se questa non sarà mia moglie e se mia moglie avrà permesso che sia bella!
Fui sincero come in confessione: La donna a me non piaceva intera, ma... a pezzi! Di tutte amavo i piedini se ben calzati, di molte il collo esile oppure anche poderoso e il seno se lieve, lieve. E continuavo nell’enumerazione di parti anatomiche femminili, ma il dottore m’interruppe:
– Queste parti fanno la donna intera.
Dissi allora una parola importante:
– L’amore sano è quello che abbraccia una donna sola e intera, compreso il suo carattere e la sua intelligenza.
Fino ad allora non avevo certo conosciuto un tale amore e quando mi capitò non mi diede neppur esso la salute, ma è importante per me ricordare di aver rintracciata la malattia dove un dotto vedeva la salute e che la mia diagnosi si sia poi avverata.
Nella persona di un amico non medico trovai chi meglio intese me e la mia malattia. Non ne ebbi grande vantaggio, ma nella mia vita una nota nuova ch’echeggia tuttora.
L’amico mio era un ricco signore che abbelliva i suoi ozii con studii e lavori letterari. Parlava molto meglio di quanto scrivesse e perciò il mondo non poté sapere quale buon letterato egli fosse. Era grasso e grosso e quando lo conobbi stava facendo con grande energia una cura per dimagrare. In pochi giorni era arrivato ad un grande risultato, tale che tutti per via lo accostavano nella speranza di poter sentire meglio la propria salute accanto a lui malato. Lo invidiai perché sapeva fare quello che voleva e m’attaccai a lui finché durò la sua cura. Mi permetteva di toccargli la pancia che ogni giorno diminuiva, ed io, malevolo per invidia, volendo indebolire il suo proposito gli dicevo:
– Ma, a cura finita, che cosa ne farà Lei di tutta questa pelle?
Con una grande calma, che rendeva comico il suo viso emaciato egli rispose:
– Di qui a due giorni comincerà la cura del massaggio.
La sua cura era stata predisposta in tutti i particolari ed era certo ch’egli sarebbe stato puntuale ad ogni data.
Me ne risultò una grande fiducia per lui e gli descrissi la mia malattia. Anche questa descrizione ricordo. Gli spiegai che a me pareva più facile di non mangiare per tre volte al giorno che di non fumare le innumerevoli sigarette per cui sarebbe stato necessario di prendere la stessa affaticante risoluzione ad ogni istante. Avendo una simile risoluzione nella mente non c’è tempo per fare altro perché il solo Giulio Cesare sapeva fare più cose nel medesimo istante. Sta bene che nessuno domanda ch’io lavori finché è vivo il mio amministratore Olivi, ma come va che una persona come me non sappia far altro a questo mondo che sognare o strimpellare il violino per cui non ho alcuna attitudine?
Il grosso uomo dimagrato non diede subito la sua risposta. Era un uomo di metodo e prima ci pensò lungamente. Poi con aria dottorale che gli competeva data la sua grande superiorità in argomento, mi spiegò che la mia vera malattia era il proposito e non la sigaretta. Dovevo tentar di lasciare quel vizio senza farne il proposito. In me – secondo lui – nel corso degli anni erano andate a formarsi due persone di cui una comandava e l’altra non era altro che uno schiavo il quale, non appena la sorveglianza diminuiva, contravveniva alla volontà del padrone per amore alla libertà. Bisognava perciò dargli la libertà assoluta e nello stesso tempo dovevo guardare il mio vizio in faccia come se fosse nuovo e non l’avessi mai visto. Bisognava non combatterlo, ma trascurarlo e dimenticare in certo modo di abbandonarvisi volgendogli le spalle con noncuranza come a compagnia che si riconosce indegna di sé. Semplice, nevvero?
Infatti la cosa mi parve semplice. È poi vero ch’essendo riuscito con grande sforzo ad eliminare dal mio animo ogni proposito, riuscii a non fumare per varie ore, ma quando la bocca fu nettata, sentii un sapore innocente quale deve sentirlo il neonato, mi venne il desiderio di una sigaretta e quando la fumai ne ebbi il rimorso da cui rinnovai il proposito che avevo voluto abolire. Era una via più lunga, ma si arrivava alla stessa meta.
Quella canaglia dell’Olivi mi diede un giorno un’idea: fortificare il mio proposito con una scommessa.
Io credo che l’Olivi abbia avuto sempre lo stesso aspetto che io gli vedo adesso. Lo vidi sempre così, un po’ curvo, ma solido e a me parve sempre vecchio, come vecchio lo vedo oggidì che ha ottant’anni. Ha lavorato e lavora per me, ma io non l’amo perché penso che mi ha impedito il lavoro che fa lui.
Scommettemmo! Il primo che avrebbe fumato avrebbe pagato eppoi ambedue avrebbero ricuperato la propria libertà. Così l’amministratore, impostomi per impedire ch’io sciupassi l’eredità di mio padre, tentava di diminuire quella di mia madre, amministrata liberamente da me!
La scommessa si dimostrò perniciosissima. Non ero più alternativamente padrone ma soltanto schiavo e di quell’Olivi che non amavo! Fumai subito. Poi pensai di truffarlo continuando a fumare di nascosto. Ma allora perché aver fatta quella scommessa? Corsi allora in cerca di una data che stesse in bella relazione con la data della scommessa per fumare un’ultima sigaretta che così in certo modo avrei potuto figurarmi fosse registrata anche dall’Olivi stesso. Ma la ribellione continuava e a forza di fumare arrivavo all’affanno. Per liberarmi di quel peso andai dall’Olivi e mi confessai.
Il vecchio incassò sorridendo il denaro e, subito, trasse di tasca un grosso sigaro che accese e fumò con grande voluttà. Non ebbi mai un dubbio ch’egli non avesse tenuta la scommessa. Si capisce che gli altri son fatti altrimenti di me.
Mio figlio aveva da poco compiuti i tre anni quando mia moglie ebbe una buona idea. Mi consigliò, per sviziarmi, di farmi rinchiudere per qualche tempo in una casa di salute. Accettai subito, prima di tutto perché volevo che quando mio figlio fosse giunto all’età di potermi giudicare mi trovasse equilibrato e sereno, eppoi per la ragione più urgente che l’Olivi stava male e minacciava di abbandonarmi per cui avrei potuto essere obbligato di prendere il suo posto da un momento all’altro e mi consideravo poco atto ad una grande attività con tutta quella nicotina in corpo.
Dapprima avevamo pensato di andare in Isvizzera, il paese classico delle case di salute, ma poi apprendemmo che a Trieste v’era un certo dottor Muli che vi aveva aperto uno stabilimento. Incaricai mia moglie di recarsi da lui, ed egli le offerse di mettere a mia disposizione un appartamentino chiuso nel quale sarei stato sorvegliato da un’infermiera coadiuvata anche da altre persone. Parlandomene mia moglie ora sorrideva ed ora clamorosamente rideva. La divertiva l’idea di farmi rinchiudere ed io di cuore ne ridevo con lei. Era la prima volta ch’essa s’associava a me nei miei tentativi di curarmi. Fino allora ella non aveva mai presa la mia malattia sul serio e diceva che il fumo non era altro che un modo un po’ strano e non troppo noioso di vivere. Io credo ch’essa fosse stata sorpresa gradevolmente dopo di avermi sposato di non sentirmi mai rimpiangere la mia libertà, occupato com’ero a rimpiangere altre cose.
Andammo alla casa di salute il giorno in cui l’Olivi mi disse che in nessun caso sarebbe rimasto da me oltre il mese dopo. A casa preparammo un po’ di biancheria in un baule e subito di sera andammo dal dottor Muli.
Egli ci accolse in persona alla porta. Allora il dottor Muli era un bel giovane. Si era in pieno d’estate ed egli, piccolo, nervoso, la faccina brunita dal sole nella quale brillavano ancor meglio i suoi vivaci occhi neri, era l’immagine dell’eleganza, nel suo vestito bianco dal colletto fino alle scarpe. Egli destò la mia ammirazione, ma evidentemente ero anch’io oggetto della sua.
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