E lui: “Porta le birre, e si trova a Long Beach, casa 916”. Grande! Avevo quasi tutte le info utili ora, tranne forse quella più importante: perché e con chi saremmo andati? Io e il Germanico partiamo, ma quando arriviamo alla casa io mi sono già scordato il numero (e voi ve lo ricordate solo perché l’ho scritto tre righe sopra). Passiamo mezz’ora girovagando per le strade e spiando nei cortili di tutte le case.
Il Germanico si lascia andare a riflessioni del tipo: “Vado avanti io, così se mi sparano – perché se entri in una proprietà privata qua lo possono fare – ti sentirai dannatamente in colpa”. “Sì sì,vai pure, ai sensi di colpa ci penso a stomaco pieno...”. Trovata la casa giusta, nel giardino ci aspettano venti persone, tra cui Jean, il Belga. Le costine sono immangiabili perché ricoperte di salsa agrodolce e la salsa di patate in scatola è semplicemente disgustosa.
Senza farmi notare, e con l’eleganza di uno scaricatore di porto, passo il tutto a Little Shit, il cane della mascolina padrona di casa. Riusciamo a filarcela dopo ben tre ore di discussioni sul maltrattamento degli animali e quattro chiacchiere con il cuoco serbocroato.
Martedì sera ho un appuntamento con un regista svizzero che vive e lavora a Los Angeles da quattordici anni. Con alcuni compagni di classe faccio un po’ di shopping ad Americana, un gigantesco centro commerciale all’aperto che mi sembra abbastanza vicino al ristorante dove dovrei essere alle 20.30.
Prendo il primo “ghetto bus” e mi dirigo verso Hollywood, ma l’autista non mi dice dove scendere. Quando lascio il bus, mi trovo ben sei fermate oltre la mia (ho già accennato al fatto che il mio senso dell’orientamento è piuttosto scadente?). Scendo, provo a prendere un altro bus, ma non ho i soldi giusti.
Lo perdo. Entro in una pasticceria (che chiamarla pasticceria è un salto di qualità non indifferente) e chiedo alla sospettosa e infarinata venditrice (ma sarà veramente farina?) se mi può cambiare i soldi. Dopo un’iniziale esitazione accompagnata da qualche borbottio del tutto ingiustificato, mi cambia i soldi.
Mi giro e perdo il secondo bus! Smarrito nel ghetto da solo e vestito dalla festa, che è praticamente come buttare una bistecca al sangue in una pozza pullulante di squali.
Finalmente prendo il bus. Già pregusto la contentezza di arrivare a destinazione, ma l’autista provvede subito a smontarmi dicendomi che dopo questo ne dovrò prendere un altro. Arrivo e salgo su un altro bus chiedendo quanto ci avremmo messo ad arrivare a Sunset Blvd. Mi dice “Un po’”.
E io: “Ah... posso arrivarci a piedi?”.
“Se hai tutta la notte, sì...”. Mortificato per la stupida domanda, mi accomodo sul primo sedile della fila. La luce giallastra non crea di certo un’atmosfera glamour, ma almeno c’è posto a sedere. Si siede di fianco a me un barbone sporchissimo dal quale emana un vivo odore nauseante. Dopo mezz’ora di tragitto mi sembra arrivato il momento di chiedere all’autista se siamo vicini e mi risponde il senzatetto! “È molto lontano, si sieda e abbia pazienza, come abbiamo tutti”. OK, ho capito che tu hai pazienza, grazie, non hai uno straccio di vita sociale!
Come una visione angelica, vedo un taxi. Scendo al volo dal bus e mi fiondo dentro la vettura giallo canarino. Finalmente arrivo, con solo un’ora di ritardo a una cena con un regista che non ho mai visto e che è stato molto gentile a invitarmi. Grande Amos, qua sì che ti fai notare.
L’insegna dice Katana, Sushi Restaurant (naturalmente io quasi odio il sushi). Cerco con gli occhi il regista e finalmente vedo il tavolo.
L’atmosfera pare strana dapprincipio, ma penso che sia perché non mi sono ancora ambientato. La carta del menù è un problema di per sé. Tra che non adoro il sushi, tra che non ne ho mai viste così tante varietà, tra che la lista è in inglese (sempre meglio che in giapponese, comunque, lo riconosco), non ho la più pallida idea di che cosa prendere. Dunque, dopo una prolungata riflessione, la mia scelta cade su un carpaccio di tonno, che alla fine si rivela anche buono nonostante dal mio punto di vista sia una stravagante curiosità culinaria ottenuta utilizzando del tonno crudo (non tonno in scatola come illusoriamente avevo creduto, o meglio sperato). A un tratto capisco: non è che non mi sono ambientato, è che nell’ambiente aleggia una predominanza omosessuale e io mi sento come un pesce fuor d’acqua (proprio come il tonno che sto mangiando). Mi siedo vicino a una ragazza sulla trentina rifatta da capo a piedi. Comincia a parlarmi del suo cane e dei suoi gatti. Dopo una buona mezz’ora che va avanti così mi pongo un quesito: “Fa più gay parlare di cani, gatti e compagnia bella con una tipa che non conosci o parlare direttamente con un ragazzo omosessuale?”. Non che ci sia nulla di male, anzi, qui a Los Angeles, e specialmente nell’industria del cinema, è praticamente d’obbligo essere pro-gay. Però si sa, forse l’abitudine, impastata con cliché con i quali si viene cresciuti in Svizzera, rendono la presenza di una persona omosessuale direttamente legata alla possibilità di essere etichettati negativamente. Annego dunque le mie considerazioni in alcune bottiglie di Sachè e Martini al lichi. Verso mezzanotte passa il Germanico a prendermi e torniamo verso casa. Sì, il Germanico mi fa da taxi.
Il mercoledì è il Limoday. Qui in America prendere a noleggio una limousine è facilissimo, poco costoso e le bibite sono incluse. Ci dirigiamo verso Hollywood e facciamo conoscenza con alcuni componenti della limo:
I Francesi: praticamente sono i nostri vicini di casa perché la loro porta è in faccia alla nostra. Sono tre amici di Jean il Belga che hanno voluto aggregarsi a noi. Arrivano da Parigi ma da un anno vivono al Residence e frequentano l’Università di Long Beach. Sembrano tranquilli e tra una canna e l’altra studiano informatica.
Amy la Professoressa: ciò che bisogna sapere sulle docenti in America è che non vengono pagate bene, sono molto aperte con gli allievi e, soprattutto, non si preoccupano se uno di loro gli limona il collo. Forse ho fatto un po’ di tutt’un’erba un fascio, ma il caso di Amy è proprio questo: ex docente alla scuola d’inglese che attualmente frequento, e anche docente all’Università di Long Beach senza nessun tipo di limite.
Le Japan: mi limiterò a raccomandarvi, se mai dovesse capitarvi di conoscere una Giapponese, di non farla bere perché dopo una birra è la fine.
A Beverly Hills, dopo aver quasi dimenticato il Germanico a una stazione di benzina dove aveva fatto rifornimento di birre, scegliamo una casa, una di quelle ville che ti vendono per una decina di milioni. Ognuno si accosta a una siepe e incuranti delle telecamere alleggeriamo le vesciche. Non tutti possono dire di essere andati al bagno “su” una villa di Beverly Hills! Sulla strada verso casa ci fermiamo a un benzinaio. La metà di noi dorme, l’altra metà continua a fare festa. A un certo punto Marc, il più spericolato dei francesi, cade a faccia sull’asfalto. Non ce la fa più. Provo ad alzarlo ma nada, come morto.
Allora corro a prendere dell’acqua e chiamo i suoi amici perché come crocerossina non valgo un granché. Dopo una decina di minuti riusciamo a metterlo sulla limousine e a posizionarlo ben vicino al finestrino. Sopravviverà.
Bene. Sono a casa e sono anche bell’alcolico, pronto per coricarmi sotto le mie coperte. Apro la porta e scopro che la gente che non è venuta in limo ha ben pensato di occupare il mio appartamento. Qualcosa mi dice che la serata sarà ancora lunga. Non riuscirò a toccare il letto prima che le lancette raggiungano le 4.00.
La sera del giorno seguente avrei dovuto incontrare il mio docente di grammatica, il quale è appena stato licenziato. Ha ancora il DVD del mio cortometraggio. Torno a casa nella speranza che il Russo sia in camera, visto che ho prestato la chiave a uno dei Francesi, così avrebbe potuto dormire sul mio divano se il suo amico avesse vomitato e l’aria fosse diventata irrespirabile. Il Russo non è a casa.
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