Amos Sussigan - L'Oscar di Cioccolata

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L'Oscar di Cioccolata è il romanzo di debutto semiautobiografico dello Svizzero Amos Sussigan. Non uno scrittore, né un professore; Amos è soltanto uno studente ventenne che lascia la Svizzera per andare in America, seguendo un sogno che presto si trasforma in un obiettivo reale e concreto. Sconvolgente. Nell'Oscar di cioccolata, i marciapiedi di Los Angeles, le gloriose spiagge di Orange County e un esplosivo mix di emozioni fanno da scenario a inseparabili nuovi amici, grandi soddisfazioni, e ancora più grandi delusioni. Benvenuti a Los Angeles.
"Io non sono mai stato un genio. Mai il primo della classe, il più bello, o quello che ha l'auto più costosa e super modificata.
Al liceo mi è capitato di nascondere bigini elaborati sotto esami di tedesco, ho saltato lezione parecchie volte e non sono mancati screzi con docenti che non ritenevo professionali. Un fine strato di pancetta copre i miei addominali (che però, sotto, sono scolpiti; sono solo coperti), troppo gel ha reso i miei capelli deboli, e non c'è giorno che non scopra un fastidioso punto nero sulla mia fronte. Un carattere forte aiuta, ma piango come tutti, mi spaventa prendere decisioni e sono più insicuro di quanto non sembri. Non sono mai stato perfetto, non lo sono tuttora e probabilmente non lo sarò mai. Io sono solo quello che ci credeva di più.
Con questa forte convinzione sono riuscito a partire per l'America, lasciando una vita che, dopo anni di piccoli sacrifici, si presentava ogni mattina nel massimo di una mia personale perfezione. Lasciavo il Ticino soddisfatto ma terrorizzato, atterrando in quell'immensa cisterna riempita di lacrime di gioia e delusione che chiamano Hollywood.
Onorato e un po' sorpreso, ricevo ora quest'Oscar di cioccolata, scura e amara, ma che si scioglie in bocca".

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“Notte man”.

La première di UP, nuovo film d’animazione della Pixar, si sarebbe tenuta la sera stessa. Arriviamo al cinema e questa volta senza sbagliare strada. È tutto esaurito. Scegliamo lo spettacolo delle 11.10. Ne approfittiamo per mangiare qualcosa ed entriamo in un ristorante che poco dopo si rivela, in realtà, un caffè romantico. Io sono come al solito un po’ stressato, dico ad Andrea di mangiare in fretta perché se no saremmo arrivati in ritardo, ma lui ribatte:

“Non bisogna mai mangiare in fretta... rilassati man”.

Prende anche il dessert. Fragole con panna. La cameriera torna con un sorriso smagliante e ci pianta in mezzo al tavolo un piatto di fragole con due forchette. Poi si lascia scappare anche un malizioso: “Enjoy it!”. Bom, andiamo al cinema che qua si stanno facendo strane idee.

Corriamo verso la sala, entriamo con tutta calma, come da volontà di Andrea, e notiamo che... la sala è piena! D’altro canto, perché mai avrei dovuto supporre che potesse essere pieno il cinema dove danno la prèmiere di un film che da settimane bombarda le strade di Hollywood di pubblicità? Troviamo fortunosamente due posti. In seconda fila. Film ben realizzato e storia particolare. Probabilmente lo riguarderò da più lontano, in modo da capire la storia nell’insieme, visto che sono riuscito a seguire solo quello che succedeva nell’angolo in basso a destra. La strada verso l’hotel non è lunga, ma non è nemmeno abbastanza corta per non farmi pensare a niente. Complice la bella serata e l’ottima compagnia, la nostalgia e la paura di un futuro più o meno vicino cominciano a logorarmi. Dritti verso l’hotel senza dire una parola. La radio suona le solite canzoni e io osservo le luci della città dal finestrino senza dar retta alla strada che corre. Il giorno della mia partenza un’amica mi ha scritto un biglietto: “A volte il vero amico è colui che sa quando è il momento di tacere”. Proprio così: a volte preferiamo mascherarci con un’aria cupa e non dire assolutamente niente piuttosto che rischiare di rovinare tutto. Poi, qualche giorno dopo, ci ritroviamo a pensare a come sarebbe stato se avessimo ammesso ad alta voce che il nostro silenzio era il frutto della paura. Che presto ciò che rendeva così speciali e meno difficili parecchie situazioni, non sarebbe più stato presente. Se avessimo trovato il coraggio di scambiare un “ciò che” con un “chi”.

Hai mai provato a contare quante volte la radio trasmette la stessa canzone e le parole raggiungono i tuoi timpani?

In cinque giorni i chilometri della Yaris sono saliti a 1300 e le ore che abbiamo passato nella nostra personale scatola di latta non si contano neanche su due mani. La colonna sonora del nostro tempo on the road è gentilmente offerta da radio Kiis, FM 102.7, che invariabilmente, tutti i santi giorni, trasmette le stesse canzoni, almeno quindici volte ognuna.

Quante volte vorresti che la tua vita fosse come Kiis FM?

Poter ripetere più volte i momenti splendidi passati in compagnia di amici veri o con la donna della tua vita. Quante volte vorresti poter rivivere tutte quelle magnifiche emozioni? Invece, invariabilmente, la vita va avanti e non si ripete mai. Provi a rifare le stesse cose, con un accanimento che arriva a rasentare l’autolesionismo, ma anche impegnandoti all’inverosimile, niente da fare, non si ripetono mai uguali a prima. Una soluzione? Vivere di ricordi oppure cercare di dimenticare per stare meno male.

Venerdì 30 maggio 2009

Il Russo, il Coreano e il Giapponese

Il mattino di domenica 31 maggio ci svegliamo presto, liberiamo la stanza dell’hilton, salutiamo le “gentili” signore alla reception e carichiamo i pesantissimi bagagli in auto.

È fuori dalla portata umana stabilire un limite ai bagagli da portare. Poi però è fuori dalla portata umana anche trasportarli. Con ben due ore di ritardo sulla tabella di marcia, arriviamo al residence che sarebbe diventato la mia nuova casa per i prossimi tre mesi. Benvenuti all’Oakwood Long Beach Marina Residence! Alla reception mi consegnano tessera e chiave elettronica per il parcheggio e per la porta, salgo le scale, apro la porta della camera 202 e TA-DA!!!

Diamo un caloroso benvenuto al nuovo arrivato, Amos dalla Svizzera!

L’appartamento è vuoto, ma al centro della stanza c’è una catasta di bagagli (anch’essa regolarmente al di fuori della portata umana) e sulle mensole in bagno shampoo e dentifricio con sinistre etichette scritte in giapponese. Intuisco la compagnia. A due minuti dal residence troviamo un motel tranquillo e poco costoso per piazzare Andrea per due notti.

Il panorama non è granché, ma il prezzo è basso ed è attaccato al residence. La camera è più spaziosa di quello che ci si aspettava e il letto è gigante, un King size. Torniamo a LA, riportiamo l’auto e prendiamo uno shuttle per ritornare di nuovo al residence.

Andrea sosteneva che “Non ci sarà mica uno shuttle per tutto eh! Se no cacchio fai, chiami e gli dici portami qua e loro ti portano ESATTAMENTE dove gli chiedi?”. Io: “Certo man”. Devo ammettere però, che senza Andrea non sarei andato lontano, visto che dopo una settimana all’Hilton non riuscivo ancora a trovare la mia stanza, tanto che una sera ho passato tre minuti a cercare di aprire la camera 7039 invece della 7037.

Poi lui si è accorto e mi ha trascinato via prima che qualcuno aprisse.

Ritorniamo al residence, apriamo la porta e, TA-DA!!! Diamo un caloroso benvenuto al nuovo arrivato “Amos dalla Svizzera!”. Questa volta ad aspettarci non c’era soltanto una catasta di bagagli, ma anche i legittimi proprietari.

Il Russo: lui sì che è un soggetto. Si chiama Igor (tranquilli, se vi aspettavate Dimitri c’è anche lui, ma lo descrivo dopo) e ha 23 anni. “DA!”. Il suo inglese non è da Oxford, dunque parla a monosillabi. Difficile è capire i meccanismi con cui ragiona. Infatti, ancora non mi spiego perché appena conosciuti vuole farci mangiare a tutti i costi. Ci sbatte sul tavolo due ciotole di fragole, taglia un ananas a cubetti e ci porta del succo. Senza chiedere. “DA!”. Lava i piatti, sistema la cucina e pulisce il pavimento, e lo fa con manifesti sintomi da syndrome d’iperattività schizofrenica. “Andiamo in piscina? A giocare a pallavolo? Ping-pong?”. Il tutto nei primi quaranta minuti di conoscenza. Una brava persona ma una pioda assurda. “DA!” (per chi non l’avesse capito ogni due parole ci infila un “DA!” che vorrebbe dire “Sì” in russo...).

Il Coreano: si chiama Lee e mi ricorda un po’ Jin di Lost. Ha 28 anni ed è quello che è qua da più tempo, nove mesi, il che dovrebbe implicare una conoscenza dell’inglese perfetta.

È triste perché molti suoi compagni se ne sono andati e si sente solo. Ordinato ma di poche parole.

Il Giapponese: lui è un’altro soggetto. Si chiama Hiro, come quello di Heroes, e fa il DJ. Ha 23 anni anche se pare un sedicenne arrapato. Sempre contento e spensierato, salta scuola ogni due giorni.

Il Russo ci “invita” a cena. A dire il vero ci stressa per andare a mangiare e poiché Andrea ed io sono 24 ore quasi che non mangiamo ne approfittiamo. Ceniamo malamente al California Pizza Kitchen, una sorta di catena di ristoranti per famiglie in stile californiano, con il Russo che si lamenta visto che oltre a zuppa non mangia nulla, e la minestra che gli hanno servito, l’unica sul menù, è disgustosa. Torniamo all’hotel e sentiamo bussare alla porta. Apro e mi si presenta un tizio pallido con le guance rossicce e i capelli biondi. Entra come se fosse camera sua e mi chiede dove è Lee, sventolandomi delle birre con percepibile euforia alcolica. Non poteva che essere Il Germanico: quello con cui mi trovo meglio fino a ora.

Gentile, ultradisponibile ma mega, troppo festaiolo. Il suo nome è Patrik ma in America tutti lo chiamano “Petrik”. Viene da Amburgo ed è qua da due mesi.

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