Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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Il marinaio osservava però attentamente la disposizione e la natura dei luoghi. Sulla riva sinistra il suolo era piano e si innalzava insensibilmente verso l’interno. Talvolta umido, esso prendeva allora un aspetto paludoso. Si sentiva un mormorio sottostante di fili d’acqua che, attraverso qualche fessura sotterranea, dovevano sfociare nel fiume. Talora un ruscello scorreva attraverso il bosco ceduo, e si poteva attraversare senza fatica. La sponda opposta pareva essere più accidentata e la valle, di cui il fiume occupava il fondo, vi si disegnava più nettamente. La collina, coperta d’alberi scaglionati lungo il pendio, formava una cortina che impediva la vista. Sulla riva destra, sarebbe stato più difficile camminare, perché i pendii precipitavano bruscamente e gli alberi, curvi sull’acqua, non si sostenevano che per la forza delle loro radici.

Inutile aggiungere che la foresta, come pure la costa già percorsa, era vergine di ogni impronta umana. Pencroff vi notò solo tracce di quadrupedi, piste fresche d’animali, di cui non poté riconoscere la specie. Con molta probabilità — e questa fu pure l’opinione di Harbert — alcune erano state lasciate da animali feroci formidabili, con i quali vi sarebbe stato, senza dubbio, poco da scherzare; ma non il segno di un’ascia su un tronco d’albero, né le ceneri di un fuoco spento, né l’orma di un passo umano; della qual cosa, del resto, si doveva forse esser lieti, poiché su quella terra, in pieno Pacifico, la presenza dell’uomo sarebbe stata probabilmente più temibile che desiderabile.

Harbert e Pencroff, parlando appena, poiché le difficoltà del cammino erano grandi, avanzavano lentissimamente, e, dopo un’ora di marcia, avevano appena percorso un miglio. Sino allora la caccia non era stata fruttuosa. Però, alcuni uccelli cantavano e svolazzavano sotto le fronde, ma si mostravano molto selvatici, come se l’uomo avesse loro istintivamente ispirato una giusta paura. Fra altri volatili, Harbert segnalò, in una parte paludosa della foresta, un uccello dal becco appuntito e lungo, che assomigliava anatomicamente al martin pescatore. Ma si distingueva da quest’ultimo per un violento colore delle penne, che avevano uno splendore metallico.

«Dev’essere uno jacamar» disse Harbert, tentando di avvicinare l’animale.

«Sarebbe proprio il caso di assaggiare un po’ di jacamar,» rispose il marinaio «se quest’uccello fosse disposto a lasciarsi arrostire!»

In quel momento un sasso, accortamente e vigorosamente lanciato dal giovanetto, andò a colpire il volatile all’attaccatura dell’ala; ma il colpo non fu sufficiente, perché l’animale fuggì con tutta la velocità delle sue gambe e scomparve in un baleno.

«Ho fallito il colpo!» esclamò Harbert.

«Eh, no, ragazzo mio!» rispose il marinaio. «Il colpo era bene aggiustato, mentre più di un cacciatore avrebbe mancato l’uccello! Andiamo! non indispettirti! Lo prenderemo un altro giorno!»

L’esplorazione continuò. Via via che i cacciatori avanzavano, gli alberi, più distanziati fra loro, diventavano magnifici; nessuno però produceva frutti commestibili. Pencroff cercava invano qualcuno di quei preziosi palmizi che si prestano a tanti usi della vita domestica, e la cui presenza è stata segnalata fino al quarantesimo parallelo nell’emisfero boreale e solo fino al trentacinquesimo nell’emisfero australe. Ma quella foresta si componeva solo di conifere, come i deodara, già riconosciuti da Harbert, i pini Douglas, simili a quelli che crescono sulla costa nordovest dell’America, e magnifici abeti, di circa centocinquanta piedi di altezza.

Improvvisamente uno stormo di uccelli di piccola corporatura e di penne leggiadre, dalla coda lunga e cangiante, si sparpagliarono tra i rami, seminando le loro piume, debolmente attaccate, coprendo il suolo come di una leggera peluria. Harbert raccolse qualcuna di quelle piume e, dopo averle esaminate:

«Sono curucù» disse.

«Preferirei una gallina faraona o un gallo di montagna,» rispose Pencroff; «ma, insomma, sono buoni da mangiare?»

«Sono buoni da mangiare, e anzi la loro carne è delicatissima» riprese Harbert. «D’altronde, è facile avvicinarli e ucciderli a bastonate.»

Il marinaio e il ragazzo insinuandosi fra le erbe giunsero ai piedi di un albero, dai rami bassi coperti di quegli uccelletti. I curucù aspettavano al passaggio gli insetti che servono loro di alimento. Si vedevano le loro zampe rivestite di piume stringere forte i rami novelli che servivano loro come punti d’appoggio.

I cacciatori allora si raddrizzarono e, manovrando i loro bastoni come falci, abbatterono intere file di curucù, che non pensavano affatto a fuggirsene lasciandosi scioccamente atterrare. Già un centinaio di essi erano sparsi al suolo, quando gli altri si decisero a fuggire.

«Bene!» disse Pencroff. «Questa è selvaggina perfettamente degna di cacciatori come noi! La si prenderebbe con le mani!»

Il marinaio infilò i curucù, come allodole, su una bacchetta flessibile, e l’esplorazione continuò. Fu notato che il corso d’acqua girava leggermente, in modo da formare una svolta verso il sud, ma questo gomito non doveva prolungarsi, giacché il fiume doveva avere la sorgente nella montagna ed essere alimentato dallo scioglimento delle nevi, che coprivano i fianchi del cono centrale.

Lo scopo principale dell’escursione era, come si sa, di procurare agli ospiti dei Camini la più grande quantità possibile di selvaggina. Non si poteva dire che lo scopo fosse già stato raggiunto; per cui il marinaio proseguiva attivamente le ricerche e imprecava quando qualche animale, di cui egli non faceva nemmeno in tempo a distinguere la specie, fuggiva tra le erbe alte. Se almeno avesse avuto Top! Ma Top era sparito contemporaneamente al suo padrone e probabilmente perito con lui!

Verso le tre del pomeriggio altri stormi di uccelli furono intravisti attraverso certi alberi, di cui beccavano le bacche aromatiche, come quelle dei ginepri. D’improvviso, un vero squillo di tromba risuonò nella foresta. Quella strana fanfara era prodotta da una specie di gallinacei, che negli Stati Uniti si chiamano tetraoni. Poco dopo se ne vide qualche coppia, dalle piume miste di fulvo e di bruno e con la coda scura. Harbert riconobbe i maschi dai due ciuffi aguzzi, formati dalle penne rialzate del collo. Pencroff stimò indispensabile impadronirsi di uno di quei gallinacei grossi come una gallina e dalla carne che sta alla pari con quella della starna; ma era difficile, perché non si lasciavano avvicinare. Dopo parecchi tentativi infruttuosi, che non ebbero altro risultato che di spaventare i tetraoni, il marinaio disse al ragazzo:

«Poiché non si può ucciderli a volo, bisogna tentare di prenderli con la lenza.»

«Come i carpioni?» esclamò Harbert, molto sorpreso della proposta.

«Come i carpioni» rispose seriamente il marinaio.

Pencroff aveva trovato fra le erbe una mezza dozzina di nidi di tetraoni contenenti ciascuno due o tre uova. Egli ebbe gran cura di non toccare quei nidi, ai quali i proprietari dovevano inevitabilmente ritornare. Attorno a essi il marinaio pensò di tendere le sue lenze, e non lenze a cappio, ma vere e proprie lenze con l’amo. Condusse Harbert a una certa distanza dai nidi, e là preparò i suoi singolari congegni con la medesima cura che ci avrebbe messo un discepolo di Isaac Walton. (Nota: Celebre autore di un trattato sulla pesca con la lenza. Fine nota) Harbert seguiva quel lavoro con un interessamento facile a comprendersi, benché dubitasse della riuscita. Le lenze furono fatte di sottili liane, unite le une alle altre, e lunghe dai quindici ai venti piedi. Grosse e fortissime spine, a punte ricurve, tolte a un cespuglio di acacie nane, vennero legate alle estremità delle liane a guisa d’amo. Grossi vermi rossi, che strisciavano sul terreno, servirono da esca.

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