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Роберто Борзеллино: Strada senza uscita. Итальянский язык B1

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Роберто Борзеллино Strada senza uscita. Итальянский язык B1

Strada senza uscita. Итальянский язык B1: краткое содержание, описание и аннотация

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Strada senza uscita

Итальянский язык B1

Роберто Борзеллино

Переводчик Игорь Бобович

© Роберто Борзеллино, 2022

© Игорь Бобович, перевод, 2022

ISBN 978-5-4498-9614-8

Создано в интеллектуальной издательской системе Ridero

STORIA

Storia di due amici, legatissimi fin dai tempi del liceo, che si allontanano a causa dell'amore per la stessa donna. Da adulti si ritroveranno a Minsk, in un'altra parte del mondo, dove uniranno i loro talenti per la musica e la scrittura. Da questo sodalizio artistico nascerà un brano musicale di successo che li proietterà nelle classifiche discografiche mondiali. L'illusione della fama e del denaro li allontanerà definitivamente, fino all'ultimo tradimento e alla tragica conclusione.

Ringraziamenti

Per quanto riguarda gli ringraziamenti per il dovere di menzionare Igor Bobovich per la sua paziente e competente opera di traduzione dei termini del glossario dall'italiano al russo.

Capitolo 1

IL RISVEGLIO

Un rumore sordoe di colpo aprii gli occhi: un frenetico brusioarrivava dalla strada, ma era una lingua strana, dal forte accento, che inutilmente cercavo di capire, di tradurre. Forse stavo ancora sognando. Ma fu solo un attimo è questo pensiero era già svanito.

Adesso potevo fare solo una cosa: alzarmi, raggiungere la cucina e prepararmi un buon caffè. Svogliatamentearrivai in cucina, istintivamente guardai il vecchio orologio alla parete e notai, con disappunto, che erano ancora le sette di mattina. Provai ad affacciarmi alla finestra, facendo attenzione a spostare delicatamente le tendine per evitare di essere scoperto ma, con mia grande sorpresa, vidi che la strada era vuota, quasi deserta. Solo qualche ombra si aggiravain lontananza intenta a raggiungere la fermata del tram dall’altra parte della strada.

Non riuscivo a crederci. Di quelle urla femminili era sparita ogni traccia. Mi arresi all’evidenza e mi affrettai a preparare il caffè seguendo il solito rituale. Quando quel liquido nero e cremoso fu pronto, mi sedetti con la tazzina fumante ancora in mano e lentamente iniziai a guardarmi intorno. Solo allora miresicontoche ogni parete della casa era tappezzatacon un’orribile carta da parati di colore giallo tenue. Chiusi gli occhi e con il pensiero abbandonai rapidamente quella casa per dirigermi, aiutato dai ricordi, verso quella distesa di sabbia color oro e quel mare azzurro che avevano allietatogran parte della mia gioventù in Italia.

Ancora non conoscevo esattamente il motivo che mi aveva spinto a fuggire da quei luoghi splendidi e cercare rifugio nell’est Europa, a Minsk. Qui avevo trovato una nuova casa e una vera famiglia che mi aveva accolto senza fare troppe domande. Ora questo posto mi sembrava come un deserto di ghiaccio, immenso e sconfinato, completamente aperto ed esposto a tutte le intemperie, con la costante presenza di un vento forte e gelido che soffiava e urlava perennementesulle finestre delle case.

A quasi cinquant’anni ancora mi illudevo di diventare un grande romanziere mentre, in realtà, mi ero trasformato in un anonimo scrittore ombra, un ghost writer, pagato per scrivere articoli e storie, che poi sarebbero stati firmati da altri. Tra l’altro era un lavoro pagato poco e male, ma che mi permetteva di restare a gallae di sopravvivere, almeno fino a quando avrei avuto il coraggio di farla davvero finita con quella inutile esistenza.

Riguardai l’orologio e vidi che il tempo era trascorso velocemente: ormai erano già le otto di mattina e non avevo ancora acceso il computer. Dovevo rimettermi subito a lavorare perché avevo ancora tante cose in sospesoda finire; ma prima di immergermi nella routine quotidiana decisi di prendermi ancora qualche minuto per leggere le ultime notizie e qualche e-mail. La mia coscienza mi avvertiva che non potevo perdere altro tempo per trastullarminei miei inutili e malinconici pensieri: dovevo assolutamente finire la correzione della bozza sulla nuova riforma pensionistica.

Al momento di accettare l’incarico sapevo che sarebbe stato un lavoro lungo e noioso ma, in ogni caso, mi avrebbe permesso di mangiare e pagare le bollette per i prossimi tre mesi. Non potevo rifiutare anche perché ero già in arretrato con l’affitto della mia stanza. Olga, la gentile proprietaria dell’appartamento dove vivevo, quando mi vedeva triste e sconsolato, cercava di tirarmi su il morale, ripetendomi, nel suo incerto italiano: «Roberto, non preoccuparti dell’affitto, sono sicura che tutto si risolverà presto.» Desideravo farmi perdonare per tutti quei ritardi che, ormai, stavano diventando una cattiva abitudine e pensai di invitarla a cena o di comprarle dei fiori, di quelli che lei amava tanto: le rose rosse.

Olga era una donna dolce e gentile e aveva grandi occhi a mandorla, che tradivano le sue origini usbeche. Era nata in un’ex repubblica che un tempo apparteneva alla vecchia Unione Sovietica, ma ci teneva a puntualizzareche la sua mamma aveva origini russe e che, per metà, anche lei si sentiva russa. Da poco aveva superato la quarantina ma la sua bellezza non era ancora del tutto sfiorita: si vedeva che amava tenersi in forma; aveva il viso e le mani curate, i suoi capelli sempre in ordine.

Mi aveva raccontato la sua triste storia. Era stata sposata con uno straniero per oltre venti anni, un egiziano che aveva lavorato a Minsk come professore universitario e con il quale aveva avuto tre figli. Le prime due figlie ormai erano grandi, rispettivamente di diciotto e quattordici anni, mentre l’ultimo figlio, il maschio, aveva appena compiuto undici anni. Il marito l’aveva lasciata ed era andato via di casa due anni prima del mio arrivo: le aveva detto di sentirsi stanco di quella vita familiare, della monotonia di una città che, dopo tanti anni, ancora non riusciva a capire.

In realtà il marito non aveva mai sopportato lo stile di vita occidentale ostentato, in tutti quegli anni, dalla moglie bielorussa e, all’improvviso, aveva deciso di tornarsene al Cairo, subito dopo avere accettato l’offerta di lavorare come consulente presso il Museo egizio ma portando via con sé le due figlie più grandi. Olga, alla scoperta del rapimento delle figlie, dopo lo shock iniziale, aveva fatto di tutto per tentare di fermare il marito, ma tutto era stato vano e nemmeno la denuncia alla polizia aveva sortito alcun effetto concreto. Con il tempo si era arresa e adesso si dedicava con tutte le energie a far crescere l’unico figlio che era rimasto con lei: il piccolo Amir.

Mentre riflettevo sulla forza d’animodella mia padrona di casa decisi di aprire la posta elettronica e, immediatamente, il mio sguardo fu catturato da una stringata frase «Massimo, il tuo vecchio amico.» Rimasi come paralizzato per alcuni secondi; quel nome «Massimo», il mio vecchio compagno di liceo, mi riportava con la mente ad un lontano passato quando, a sedici anni, si pensa di avere il mondo tra le mani. Era trascorso tanto tempo dall’ultima volta che avevo avuto sue notizie e mi affrettai ad aprirla, sperando che contenesse qualche bella notizia.

Lessi voracementeil contenuto di quell’e-mail: era proprio Massimo che, con il suo stile inconfondibilmente ironico, mi raccontava di non essere riuscito a realizzare i suoi sogni di artista e che aveva sperato fino all’ultimo di poter diventare un cantante famoso. Alla fine si era arreso, aveva messo da parte la sua chitarra ed era tornato ad un “lavoro normale”. Aveva capito che il suo irrealizzabile sogno lo avrebbe condotto su di una strada senza uscita. Mi aveva allegato una sua fotografia dalla quale, a stento, riuscivo ancora a riconoscerlo e mi chiedeva di fare altrettanto e di fargli sapere come me la passavo e se, in un prossimo futuro avremmo avuto occasione di rivederci dopo così tanto tempo.

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