Il vecchio muta all’improvviso consiglio; toccato appena il giacente, si rileva da terra e, scopertosi il capo, gli occhi affissando al firmamento favella in suono ispirato: “Dove passò la vendetta di Dio che cosa mai aggiungerebbe la mano dell’uomo? Io aspettai lunghi anni invano questa vendetta, e poichì non la vidi, ti rigettai dal mio seno, ora che hai posto l’uccisore del figlio sotto la zampa del cavallo del padre, io tremo tutto davanti alla tua tremenda giustizia, o Signore!”
Tacque e dopo un silenzio non breve riprese:
“Costui, non che i più scellerati tra gli uomini, vinse in nequizia le più feroci tra le belve; però la sua iniquità non toglie l’obbligo a voi di mostrarvi pietosi, dacché lui ebbe nascendo il segno della salute: dategli pertanto sepoltura, ma non gli ponete memoria; il suo nome rammenterebbe delitti che per decoro della umana natura è bene s’ignori che possano essere stati commessi: non gli dite preghiera, ella andrebbe dispersa; comunque infinita la misericordia di Dio, i suoi misfatti la superano. Patria di quell’anima era l’inferno”.
Il vecchio si allontanò; abbandonate le redini, si lasciava in balia del cavallo; avvertito di badare alla strada, non pareva intendesse; domandato a grande istanza più volte chi fosse colui del quale gli era occorso il cadavere e per quali casi a lui noto, non dà risposta: molti argomenti adoperati e tutti riesciti a vuoto, Annalena e Vico non cercano rimuoverlo dal suo pertinace silenzio.
“Significate al signor commissario che Vico Machiavelli giunto or ora da Firenze ha da consegnarli lettere degli magnifici signori Dieci di libertà e guerra”, – diceva Vico, smontato in Empoli al quartiere del Ferruccio, alla lancia spezzata che v’era posta di guardia.
“Non si può. Il commissario ha comandato che per cosa al mondo non si turbasse prima dell’ Ave maria del giorno”.
“Andate tuttavia; e se dorme, svegliatelo”.
“Ferruccio non dorme: guardate quella grand’ombra sopra l’opposta muraglia, ì il signor commissario Ferruccio che passeggia su nella sala del primo piano”.
“Dunque avvisatelo”.
“Non si può; l’ordine non lo concede”.
“Almeno portategli o fategli portare questo piego”.
“Non si può; l’ordine non lo concede”.
“Il diavolo riposi le tua ossa”, mormora tra i denti Ludovico, e subito dopo riprese:
“Ebbene, tostochì giunge l’ Ave maria recategli questi fogli: se mi vorrà, ditegli che sono al quartiere; se mal ne avviene, il mio debito ì compito.”
E quinci si partiva sdegnoso; ma appena fu in lui un poco queto quel primo impeto d’ira, ripensando come il Ferruccio, avendo tolto l’arduo incarico di ripristinare l’onore della milizia italiana, doveva mostrarsi zelantissimo della disciplina, e il danno poco ed incerto che poteva derivare dal soverchio rigore non era da paragonarsi a gran pezza al danno immenso e sicuro che sarebbe nato dalla troppa rilassatezza, – concluse, siccome gli avveniva il più delle volte, di dar torto a sé, ragione al Ferruccio.
Si ridusse ai quartieri – apre la porta rimasta socchiusa, penetra nella stanza e vede Annalena e il padre di lei seduti davanti al focolare e così sprofondati nelle proprie meditazioni che non si accorsero della sua presenza, presa pertanto una scranna, lui si pose dall’altro lato del focolare di faccia a Lena.
Lucantonio all’improvviso, senza muovere ad atto alcuno le membra, senza quasi agitare le labbra, come se la voce partisse da precordii di pietra, in suono roco parlò:
“Annalena…, voi cesserete d’ora in poi di chiamarmi padre… Perché… Perché voi non siete mia… figlia…”
Passò forse mezza ora di tempo, a capo della quale Lucantonio, ma questa volta con voce tremula, che l’umanità tornava a soperchiare sul cuore del vecchio, riprende:
“E mi era così dolce sentirmi chiamar padre…! e da te, Lena! ed ora mi chiamerai Lucantonio senz’altro, Perché non mi sei figlia”.
La passione gittò gli argini; scoppiò da’ suoi occhi irrefrenato il pianto; strinse con impeto convulso tra le sue braccia Annalena, ed Annalena lui: pareva ambedue s’ingegnassero mantenere a forza di amore quanto avesse potuto perdere per natura il vincolo che da tanti anni gli univa.
“Ahimé!” – riprese il vecchio ponendo una mano sopra la fronte alla fanciulla, “questo tuo capo innocente non seppe immaginare il male neppure all’insetto che ti pungeva, ed ora dovrà contenere il germe dell’odio ch’io vi semino dentro… Dio voglia che rimanga senza frutto! D’ora in poi, quando camminerai tra i campi nel bel mese di maggio, i fiori non avranno più profumi per te, non più canto gli uccelli, non più sorriso la natura: occuperà l’anima intera una tremenda contemplazione di misfatti; i tuoi sogni verginali cesseranno, atroci fantasmi ti sveglieranno nella notte, e tu stenderai paurosa la mano sul guanciale, Perché nel sogno ti sarà apparso temperato di sangue: ascoltami, io ti racconto una storia funesta; tu la crederai appena, tanto ella è truce; io la vidi con questi occhi, con questo cuore io la sentii, e forse non ti rendo con le parole la millesima parte del vero. E Lucantonio riprese: Quel uomo che avete veduto, or non è guari, cadavere miserabile sotto le zampe del mio, era Naldo Monaldeschi, traditore e omicida dei tuoi genitori e della mia famiglia, Annalena. Tu nasci dei Tosinghi e sei di Prato; io nacqui in Casa di tuo padre; a lui per fortuna sarei stato famiglio, ma l’amore ammendando i torti della fortuna ci volle fratelli, imperciocché morì nascendo lui la madre sua, noi bevemmo la vita dal medesimo seno, e le nostre braccia s’intrecciarono da pargoli sopra un medesimo collo”.
Vico, Annalena e Lucantonio si strinsero in un solo abbracciamento e proruppero in grido doloroso. Annalena giunse le mani e alzandole al cielo diceva:
“O Signore, io sperava tu mi avessi conceduto la vista della mia genitrice”.
…I giovani stavano per consolare Lucantonio, quando furono trattenuti da un secondo colpo più fortemente bussato.
Capitolo Ventesimoquinto
Volterra
Era Francesco Ferruccio. Lui s’inoltrò con passi gravi, e in sembiante severo; ma quando vide la fanciulla atteggiata di dolore, quasi statuetta che un bel pensiero di artista abbia posto sul sepolcro di un primogenito o di sposa nuovamente divelta dalle braccia – forse dal cuore – dell’amato consorte quando dal volto di Vico e di Lucantonio conobbe l’angoscia esser passata colà, di severo divenne mesto ed appoggiò il gomito destro sul pomo dello spadone, sopra la mano la faccia. E dopo alcun tratto di tempo incominciò:
“Ludovico, io sono venuto a dirvi addio. Prima che nasca il sole, mi ì forza partire in servizio della Repubblica per impresa piena di pericolo e di gloria. I giorni dell’uomo sono uguali ai passi del viandante, – i giorni del soldato trovano appena paragone nei passi del cavallo che fugge”.
Ludovico alzò gli occhi attonito e rispose:
“Perché rimango io?”
“Per ordine dei signori Dieci consegnerò” la terra al nuovo commissario Andrea Giugni…”
Costui conobbi sempre studioso della licenza, la quale, finché non trovi luogo a dimostrarsi nel suo brutto sembiante intera, assai sovente si scambia con la libertà, uomo di corrucci e di sangue, non di quell’animo fermo che i gravi casi della patria domandano, di costumi corrotto e superbo, ogni bene riposto nei grossolani diletti della vita. La impresa a cui mi prepongono i Dieci gioverà assai alla salute di Firenze, Perché, vincendola, come, da Dio sovvenuto, confido, ridurrà alla sua devozione una città ribelle, e il suo credito scaduto verrà a rinverdire; in ogni caso, scemerà forza all’esercito, Perché Orange manderà gente a tentare di ricuperarla. Però il danno non compenserebbe il vantaggio perdendo Empoli: finché conserviamo questa terra, non sarà mai spacciata la patria; la campagna ci è aperta fina a Pisa, comodissima ci sovviene la facilità di provvedere gli assediati; insomma il Palladio di Firenze si conserva qui dentro. Or dunque voi comprendete di quanta importanza mi sia lasciarvi persona sicura che vigili attentissima tutti i casi che possono accadere alla giornata e me ne ragguagli con diligenza”.
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