Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / L'assedio di Firenze

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Итальянский с любовью. Осада Флоренции / L'assedio di Firenze: краткое содержание, описание и аннотация

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В книгу вошел сокращенный и незначительно упрощенный текст романа классика итальянской литературы Ф. Д. Гверрацци «Осада Флоренции». Увлекательный сюжет, описание значимых исторических событий и романтическая составляющая – все это делает роман превосходным материалом при изучении итальянского языка.
Текст произведения сопровождается постраничными комментариями, а также небольшим словарем, облегчающим чтение.
Книга может быть рекомендована всем, кто продолжает изучать итальянский язык (Уровень 4 – для продолжающих верхней ступени).

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E ricopertosi il capo, con feroce sembianza brandita la spada, riprese:

“Soldati, non mi vogliate abbandonare in questo giorno”.

I cavalieri imperiali, sospettando ormai la malizia dei Gavinanesi e già vedendo apparire le insegne fiorentine, non si tennero più in freno, ma, trascorrendo a mano diritta lungo le mura di Gavinana, si fecero animosamente ad incontrare il nemico.

Nessuno vinceva, e si distruggevano tutti. Alcuni cavalieri fiorentini, o trasportati dall’estro della strage, o sia piuttosto, come crediamo, desiderosi col sacrificio delle proprie persone assicurare la salute della patria, scorgendo un calle su per la costa del monte, vi salirono a stento, e quando furono giunti a conveniente altezza, gridarono: “Viva la Repubblica!” – poi spinsero giù alla dirotta i cavalli, cacciando loro nel ventre intieri gli sproni. Quando loro percossero i fianchi dei nemici, alcuni dei nostri rimbalzati dall’urto oltrepassarono volando sopra di loro e andarono capovolti ad incontrare la morte giù nel dirupo; altri caddero infranti tra le zampe dei cavalli: nondimeno così irresistibile fu l’impeto che la schiera si ruppe, e con eccidio miserabile ben molti tennero dietro nel precipizio ai nostri che tanto nobilmente si erano sagrificati. Allora crebbe il cuore ai Forentini: i capitani sopra gli altri volevano essere, siccome maggiori nel comando, così primi nel pericolo; sorse stupenda una gara di affrontare la morte; incalzano i Ferrucciani, piegano gli Orangeschi; indi a poco i cavalli, trovando dietro a sé bastevole spazio, si volgono e si danno alla fuga.

“Vittoria! vittoria!” con immense strida gridavano i soldati del Ferruccio, respinti i nemici e dispersi per la campagna, rientrando nelle mura di Gavinana. I terrazzani dai balconi, dai tetti plaudivano battendo palma a palma e sventolando candidi pannilini. Le campane sonavano a gloria.

“Vittoria! vittoria!” rispondono i cavalleggeri fuori delle mura, i quali a posta loro, ributtati i cesarei, occupavano il piano delle Vergini. Dappertutto allegrezza. Il cielo stesso placato lasciava aperto tra le sue nuvole un adito al raggio del sole, l’ultimo che salutasse il gonfalone della Repubblica Fiorentina.

E il prode Ferruccio, palpitante, bagnato di sangue nemico e de’ suoi si appoggia all’asta della lancia sotto il magnifico castagno che sorgeva sopra la piazza della Gavinana. I suoi occhi stanno rivolti al firmamento porgendo col cuore grazie fervidissime a Dio; non lo poteva con le labbra, ché lo impediva l’affanno.

…La battaglia si continua; il Ferruccio respinge dalla Gavinana il nemico, lo disperde per la campagna, e dubbioso sia per tornargli addosso da capo, non si ferma finchì vede persona davanti a sì; allora fece sosta, ed accorgendosi che la punta della stradiotta per lo spesso ferire erasi storta, si chinò e raccolse da terra uno spadone a due mani di quelli che usavano i lanzichenecchi; poi, ordinati i superstiti a chiocciola, s’incammina al castello in soccorso di quelli che vi aveva lasciato. Le torme dei cesarei intanto si erano chiuse dentro di lui e avevano invaso tutte le strade della Gavinana: i suoi ben tuttavia vi stavano dentro, ma diventati cadaveri. In quel momento il Ferruccio alzò la voce e chiamò a nome i suoi più valorosi compagni; nessuno gli risponde; la morte aveva loro resa inerte la lingua.

Ora, mentre la sua anima pensando al fato di tanti prodi sospira, due grosse bande di nemici, imbaldanziti dalla vittoria e disposti ad abusarne quanto più furono immeritevoli di conseguirla, con minacce barbariche gl’intimano da lontano la resa.

Giampagolo Orsino, ormai disperato, si accosta al Ferruccio e gli domanda:

“Signor commessario, vogliamo noi arrenderci?”

“No”, – gli risponde con forza il Ferruccio; e piegata secondo il suo costume la testa, si avventa primo contro i sorvegnenti imperiali.

Nicolò Strozzi, considerando come quel valoroso, più che a mezzo morto, potesse appena reggere la spada, non volle si esponesse a sicurissimo eccidio; onde presto si pose tra il nemico e lui, riparandogli col proprio corpo le ferite.

Ma il Ferruccio, brontolando, lo trasse in disparte e in ogni modo volle pel primo affrontare il nemico. Cessata la speranza di vincere, combattono per non morire invendicati. Gl’imperiali abborrenti di sostenere l’estreme ire di quei terribili uomini, si allargano e li bersagliano con gli archibusi da lontano. Ad ogni momento ne cadeva uno per non più rilevarsi, né i superstiti pensano ad arrendersi. Anche la Toscana ebbe i suoi Trecento e Leonida.

“Il gonfalone di Firenze! Gli angeli scendono a difenderlo: viva la Repubblica!”

Questo grido mandarono il Ferruccio e i suoi compagni, allorchì, alzando all’improvviso lo sguardo, videro sventolare al balcone di un castelletto posto sopra certa eminenza accanto le mura di Gavinana la bandiera del comune.

E al balcone si affacciò Vico Machiavelli, che con la voce e col cenno chiamava i compagni a riparare in cotesto estremo propugnacolo. Non senza nuove perdite colà si condussero; stremati com’erano di forze e di sangue, quella breve erta parve loro infinita. Sbarrarono le porte, come meglio poterono si afforzarono e dai balconi, dalle feritoie, che anche in oggi si vedono, presero a bersagliare il nemico.

Gl’imperiali, sospinti dalle minacce dei capitani, che dietro loro incalzavano con la spada nuda, molte volte salirono all’assalto, e sempre sopraffatti dalla tempesta delle palle piegarono. Maramaldo, rimasto in Gavinana, sentendo riuscire i conati invano, spumava di rabbia, e all’ultimo mandò a dire che se in mezz’ora non superavano il castello, gli avrebbe appiccati quanti erano. Si accingono all’ultima prova; le palle vengono più rare; arrivati a mezza costa scemano ancora; a piì del muro cessano affatto, stanno immobili alquanto di tempo paurosi di sorpresa, non offesi si rinfrancano, i più timidi saliscono a gara, insieme uniti si sforzano a rompere le imposte, a scalare i balconi.

I nostri non hanno più polvere, non palle, e dimentichi dei pericoli e dei propri dolori, contemplano l’agonia di un valoroso. Ferruccio giace sopra un letto di foglie castagnine; non ha parte di corpo illesa; invano tentarono arrestargli il sangue, prorompe dagli orli delle fasciature, distilla dai lini temprati. Genuflesso a destra, gli sorregge il capo Vico Machiavelli, il quale forte si abbranca il petto sotto la mammella sinistra per impedire anch’egli lo sgorgo del sangue da una ferita ricevuta in quella parte, e dalla manca simile cura gli rende Annalena, anch’ella genuflessa.

Ardono in terra alcune lampade, le quali quando il sole illumina il nostro emisfero partoriscono effetto sempre solenne nell’uomo, imperciocché accennino la presenza della morte – o Dio.

La morte con la mano grave chiudeva gli occhi al Ferruccio, ma l’animoso, sforzandosi scoterne il peso, avventava la pupilla coruscante a modo di baleno verso il balcone. Allora il Ferruccio non contese più oltre la potenza della morte, lasciò abbassata la palpebra e sospirò con mestissimo accento:

“È caduto! È caduto!”

All’improvviso le porte sfasciate si disfanno, irrompe il nemico nelle sale del castello. Di stanza propagato in istanza, ecco percuote le orecchie del nemico una cantilena di sacre preci, un singhiozzare sommesso; un suono di pianto, siccome avviene nelle case che sta per visitare la morte. Entrarono e videro l’agonia del campione della Repubblica, o piuttosto dell’ultimo fra i grandi Italiani.

Ciò dicendo mosse per aggiungere alle parole l’esempio e già stendeva le mani su quelle sacre membra, quando Vico Machiavelli saltando all’improvviso in piedi lo respinse lontano, poi levatasi la destra dalla ferita strinse la spada ottusa nel taglio, troncata nella punta, e l’alzò per percuoterlo. Ahimé! Il sangue spiccia a zampilli fuori della ferita, lui vacilla com’ebbro e, dopo alcuni vani conati per sostenersi, stramazza duramente per terra. Annalena gittando un urlo disperato abbandona il capo del Ferruccio e si protende smaniosa sul corpo del marito.

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