“Sì, via, ma rendilo.”
“Io non lo tengo, per soldato, e ne voglio per riscatto mille fiorini d’oro”.
E disparve galoppando. L’Antinori cammina a capo basso e non profferisce parola.
Tornato a casa, chiese bruscamente alla serva: “Dov’è mia madre?”
“Badate, Giovanfrancesco, – pensate ai comandamenti della legge di Dio; io vi sono madre di latte… ma madonna v’è di sangue, non le mancate di rispetto…”
Il Morticino non l’ascoltava e prorompendo nella stanza della madre trovò seduta sopra un seggiolone la vecchia madonna assopita di un sonno leggiero. La vecchia donna, altera del nobil sangue che le scorreva nelle vene, piena della reverenza dovuta alla materna autorità, si levò subito con tale una forza di cui si sarebbe riputata incapace, allontanò da sé la sedia, mosse un passo in avanti e sollevò il braccio destro in sembianza d’imprecare; una striscia di fuoco le attraversò le guancie; gli occhi le si dilatarono minacciosi e terribili: era una figura da Michelangelo.
“Tu tronchi la mia agonia, non la mia vita; per pochi momenti vuoi tu renderti parricida? Va… io…”
“Per Dio, arrestatevi, madre… Io! Qual demonio vi caccia questo pensiero nella mente? Conoscete voi Lionardo Frescobaldi… quel nobile giovanotto che sovente usa qui in casa? Sì, voi lo conoscete… or lui cadde testè prigioniero, e gli hanno posto il riscatto addosso di mille fiorini d’oro: ora nel pensiero di torli in prestanza da altri la mia anima geme per immensa amarezza. Oh! casa Antinora decaduta, quanto t’era lieve un giorno trovare nei tuoi forzieri mille fiorini d’oro!… ”
La vecchia madonna declinò il braccio e sciolse un sospiro; poi strinse in amplesso amorosissimo il Morticino esclamando:
“Sangue superbo – e figliuol mio! tu sei la mia consolazione… Aspetta… Prendi questo scrignetto, Giovanfrancesco; io gli aveva serbati per qualche estremo bisogno della vita… spero che basteranno; or volgono forse cinquanta anni che non gli ho annoverati, quanti essi sieno ignoro… ma spero che basteranno. Va… lasciami in pace… e non farmi più così paurosamente aprire le palpebre… le tengo chiuse per insegnare loro a morire”.
…Il Morticino degli Antinori aveva tolto seco un mulo ed un fante, portava in cima alla picca il pennoncello bianco e camminava, lieto cantando, verso il campo imperiale. Antinori, giunto ai piedi della bastite nemiche, vide ad un tratto abbattere meglio di venti archibugi ed accostare le corde fumanti ai foconi; onde, sollevato il pennoncello gridò:
“Messaggero! – Rispetto al messaggero! Chiamatemi il capitano Giovanni da Sassatello, e ditegli che venga col prigione Perché il riscatto è pronto”.
Il giorno toccava i gradini ultimi del crepuscolo; il cielo si era mantenuto pioviginoso e tinto in grigio: a qualche distanza appena vi si vedeva.
Mostrandosi da’ bastioni fino a mezzo petto, Giovanni da Sassatello domandò:
“Chi è che mi vuole?”
“Capitano Giovanni, ho qui meco i mille fiorini, rendetemi il prigioniero”.
Qui apparvero due altre figure dietro al Sassatello; una di quelle era Eustacchio unico suo figlio, l’altra il Frescobaldi; questi pareva stanco o ferito, Perché stava abbandonato fra le braccia del figlio del capitano Giovanni, il quale con infinito amore lo soreggeva.
“Di gran cuore, messere Antinori; se non che l’illustrissimo principe ha fatto chiudere di buona ora le porte del bastione e volle la chiave presso di sì, onde non trovo modo per uscire fuori…”
“Poco importa: fate scendere il prigione giù per una scala e poi vi manderò su per una corda il danaro”.
“Prima il danaro”.
“Prima il prigione”.
“Dio vi mandi la buona notte. Andiamcene, Eustacchio…”
“Capitano, ascoltate… non partite… componiamo; mezzi prima mezzi dopo restituito il prigione”.
“Questi mi paiono compromessi da trecconi: di più nobil sangue e di più gentile intelletto io vi stimava, messere Antinori”.
“Or via, calate la corda, e vi manderò il danaro…”
“La corda a un punto io calerò e la scala.”
Così fu fatto: ebbe il Sassatello i fiorini; Eustachio sollevando Lionardo, lo pone su la scala, ve lo adatta, lo lascia. Ah! tracolla giù di un colpo ai piedi del bastione.
“Per la santissima Annunziata”, urla il fante dell’Antinori, “messer Lionardo ì morto!”
“Morto! come morto?” ripete forsennato l’Antinori.
“Vi aveva forse promesso rendervelo vivo?” – forte ridendo diceva il Sassatello, – “il patto era renderlo, ed ecco, io l’ho reso; adesso vi darò anche la giunta. Eustacchio, fa di non mancare quel gaglioffo fiorentino”.
Balenò un archibuso; l’Antinori si sentì tocco dalla palla, ma senza dolore: volle parlare, e non potendo, si morse le mani: una striscia di fuoco gli solcò la guancia, cotesto fuoco era una lacrima: la ribevve; non una stilla deve sgorgargli della immensa sua rabbia. Propone avventarsi alla scala, salire sui bastioni, inebbriarsi nel sangue del traditore: ma, bersaglio a cento archibusi, sarebbe certamente rimasto ucciso; mentre vuol muovere un passo la terra gli manca sotto, e strammazza. Il fante, posti su le groppe del mulo il cadavere del giovane Frescobaldi e il Morticino ferito, riprese mesto la via di Firenze.
Capitolo Decimosesto
La vendetta
Erano cinquecento fanti: cento archibusieri e gli altri quattrocento in corsaletto armati di partigianoni e di alabarde; ai quali si aggiunse una banda della milizia del gonfalone dell’Unicorno capitanata da Alamanno de’ Pazzi; sopra il corsaletto portavano tutti un camicia bianca per distinguersi dai nemici, motivo per cui questa impresa notturna si chiamava incamiciata.
Quanto più possono chetamente s’inoltrano; divisando Stefano Colonna incominciare l’assalto dall’alloggiamento del colonnello di Sciarra Colonna, contro il quale nudriva nimistà mortale, si apprestano a salire su pel poggio per a Santa Margherita a Montici. Alcuni più arrisicati e conoscenti del sentiero trascorrono; ecco sono giunti presso al tabernacolo delle cinque vie, dove i nemici tengono due sentinelle perdute.
“Chi viva?” – gridano entrambe.
“Viva la morte!”
Si ode una procella di colpi; un suono di usberghi percossi sul terreno; le parole: Gesù, abbiate misericordia dell’anima mia! vengono tagliate a mezzo, così ordinando ragione di guerra; quindi un gemito roco, e poi più nulla.
S’inoltrano per la valle che giace tra Rusciano e Giramonte, la passano, già toccano alla coda dell’esercito. Apra l’inferno le sue porte! Ecco improvvisamente danno dentro all’alloggiamento di Sciarra; molti, i più avventurosi, dal sonno si trovano balestrati nell’eternità; altri si svegliano per vedere soltanto la spada che penetra loro nelle viscere: sorge un cieco viluppo, un trambusto di gente che fugge o che muore e un gridare: – Accorruomo! – accorruomo! – arme! aiuto! – e minaccie e preghiere, suoni compassionevoli o ferici. Smeraldo da Parma, luogotenente di Sciarra, corre forsennato per radunare le milizie, rincorarle e far testa; così al buio si scontra nel signore Stefano e lo garrisce come neghittoso; questi, accecato dalla brama di sangue, lo scambia con lo Sciarra suo consorto e gli menando un colpo di zagaglia nel petto, “Sciarra”, – gli grida, – “or ti parrà ch’io sia venuto troppo tosto!” Segue una mischia atroce, i nemici, mentre tentano difendersi, l’un l’altro, confondendosi, percuotono; dove adunarsi non sanno; non risplende lume, per ogni parte li circonda la morte. – Oh Dio! qual desolazione ì mai questa! – potessimo almeno morire da soldati combattendo! – sia tradimento? – tradimento! – tradimento! E lo scompiglio e la strage crescono terribili più, quanto meno veduti. Dove l’affronto mena più tremendo il rumore: la voce del Pieruccio, superando i gridi e le percosse, invoca i lupi e gli avoltoi ad accorrere per satollarsi di carne battezzata.
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