1 ...7 8 9 11 12 13 ...25 “Toglietemi dinanzi quel pazzo!” – grida Malatesta con labbri tremanti… – “cacciatelo via… trucidatelo…”
“Addosso! Al matto! Ammazzatelo! Ammazziamolo! – Ì un profeta. – Se la intende col diavolo. – Tacete, impostore, avrebbe dato la posta al diavolo a piì della croce? – Ì un santo, vi dico. – Un ladro, ammazziamolo”. Così le turbe; e il Pieruccio, con tale una voce che superò il mugghio delle turbe proruppe:
“Tu sarai tormentato settanta volte sette!”
Frattanto Signoria e il Baglione procederono in silenzio. Giunti presso al palazzo, Malatesta facendosi più dappresso al Carduccio, gli favellò:
“Spero, magnifico messere, che vi darete ogni cura di porre al martore il ribaldo che in me per ben due volte oggi offendeva la maestà della Repubblica, e quindi, come conviene, gli mozzerete la testa”.
“Strenuissimo capitano, gli Otto e la Quarantia hanno potestà di far sangue, non io; provvedetevi davanti a cotesti magistrati… Ma tornerà poi in onor vostro, messere, contendere col pazzo? – Pensateci!…”
“Se lo tenete per matto, allora chiudetelo”.
“Prima dei pazzi vorrebbersi sostenere uomini bene altramenti pericolosi alla città, Malatesta…”
“E quali, messere?”
“I traditori”, – concluse il Carduccio.
Capitolo Decimoterzo
L’assalto notturno
Nella tenda di Filiberto principe di Orange giocavano chi a dadi, chi a scacchi, giochi, se la tradizione ci racconta il vero, trovati da Palamede all’assedio di Troia; e più a carte come le inventò il Grignoart, per trastullo all’imbecilità di Carlo VI re di Francia, o modificate a tarocchi, scoperta non invidiabile degl’ingegni fiorentini, i quali vollero significare nei re, nel diavolo, nel papa e nelle rimanenti figure scherno o ira contro le fazioni prevalse nel governo della Repubblica: carte e figure le quali adesso non rappresentano più nulla, tranne un consumo di tempo che, attesa l’erpete morale della presente società, non può riputarsi male impiegato per la ragione che diversamente si correrebbe rischio d’impiegarlo anche peggio.
Giocavano: e quivi, come nei tempi andati e successivi, avresti potuto contemplare il riso ostentato di chi perdeva la sua ultima moneta, – riso che muove a compassione e spavento; la tristezza finta di chi vince, tristezza ch’eccita rabbia; poi le mani trepidanti di tutti; del perditore per passione di sapersi spogliato, del vincitore per cupidigia di rapire l’ultimo soldo; e gli occhi riarsi di cupa fiamma nel disperato, scintillanti di vivido splendore nel favorito dalla fortuna, e gli ammicchi, e le parole brevi susurrate dentro gli orecchi, e il furtivo stringersi delle mani.
“Io non ricusai i vostri conforti, ora abbiatevi i miei, e sappiate, principe, che io conosco una via per la quale non solo non perderete, ma accrescerete la reputazione da voi acquistata meritamente e mantenuta fin qui”.
“Davvero, Bandino? Oh! io ti saluterò angelo mio custode, – non tanto per me, vedi, quanto per la nobile madre mia; ella morirebbe di dolore, se sospettasse un simile fatto…, ella scenderebbe nel sepolcro contristata. Copritemi il volto del lenzuolo funerario, ond’io non veda il disdoro della mia famiglia, ella direbbe. Or dunque parla, Bandino, ridammi la vita e più che la vita…”
“Bisogna dar l’assalto a Firenze”.
“E quando?”
“Tra due ore”.
“Tra due ore, Bandino?”
“Nulla manca. I Sanesi provvidero quattrocento scale per salire, i ferri e gli uomini per trucidarsi sono pronti”.
“E a che mena l’assalto?”
“O voi espugnate la città, e allora avrete danaro più che non basta a soddisfare le paghe…”
“E se, come temo, non l’occupo?”
“Vi moriranno tutti o parte i creditori; e in ogni caso saranno tanto importuni di meno”.
“Giovanni Bandino, voi mi oltraggiate”.
“Dio me ne guardi! – le azioni meglio magnifiche che il mondo ammira trassero spesso principio da più ignobili cause: ormai ho passato il mezzo della vita, né già mi sono giocato gli anni, come voi i fiorini di papa Clemente; conobbi i grandi dell’età nostra; piuttosto che eroi davvero, mi parvero giocolieri di fama – e così penso che fosse la maggior parte degli antichi…”
“Ma la notte è troppo scura, e Dio manda giù acqua a bigonce… in qual modo si distingueranno le insegne? Come si ripareranno dal fango? I capitani biasimeranno questo mio ordine come pessimo accorgimento di guerra…”
“I capitani prima di tutto obbediranno, – e qui sta il meglio; – poi risponderemo loro essere capitani di vecchio stile: quanto più disagiato il tempo, tanto più verosimile si trovi sprovveduto il nemico; il certame a luogo e a giorno fissi occorrere nella tavola rotonda soltanto, e dal re Arturo in poi aver progredito l’arte militare: ancora, se, giusta il costume di Firenze, hanno le milizie nemiche festeggiato il presente giorno, come vigilia di San Martino, a quest’ora dormono sepolti nel vino: la pioggia stessa e la oscurità vi danno favore; a cagione della prima, la polvere bagnata non concederà si sparino le artiglierie; a cagione di questa, quando pure le potessero sparare, non saprebbero in che punto colpire… Sapienza militare; accorgimento astuto, amore di gloria – e sopratutto necessità di rifare i denari consigliano ad assalire Firenze tra due ore.
“Siete pure i cervelli sottili voi altri Fiorentini! Fra due ore l’assalto: è detto!”
…All’improvviso rimbomba un colpo d’artiglieria. Il cittadino di Firenze balza a sedere sul letto e tende l’orecchio, timoroso di non essersi ingannato. Un altro colpo, – Ch’ì questo? Qual nuovo caso ci minaccia adesso? Comincia la campana dei Signori, rispondono le campane di santa Reparata, tutti i campanili della città suonano a stormo; le artiglierie spesseggiano i tiri.
– Misericordia! questa è l’ultima notte della mia vita! E il cittadino poc’anzi lieto delle tepide piume si gitta giù scalzo sul pavimento, apre le imposte e nudo si espone al gelato mordere dell’aria; ode un frastuono confuso di gente che corre e che grida, ma non gli riesce distinguere cosa che valga a toglierlo dall’ansietà. Si veste in fretta, cinge la spada e, nulla badando alla pioggia, al freddo, ai pericoli, precipita sulla pubblica via. Vi furono padri di famiglia i quali, inteso il primo colpo di artiglieria, si tolsero pianamente dal lato alla moglie, sperando e pregando ch’ella pure dormisse; ma la consorte si sveglia e desta i figli, e con essi loro si pone traverso la porta, contendendo al marito l’uscita; i figli gli stringono le ginocchia, la moglie lo abbraccia su i fianchi; pianti e singulti che spezzano il cuore: “Oh! non uscire, perderai la vita.” “Figliuoli miei” – parla blando il buon cittadino, – “mia dolce consorte, s’io pur rimango, il nemico espugnerà la terra, e me ucciderà con voi, meritamente, invendicato, Perché mancai alla patria: se mi lasciate correre alle difese, ributteremo i barbari… o in ogni caso non morirò senza vendetta… nì i vostri occhi saranno funestati dalla mia strage… Sgombratemi il passo, tacete – e datemi l’arme”, – tacquero. Lo armarono, e quando fu partito ripresero il pianto con l’impeto del fiume che rotto l’argine straripa. Altrove la madre destò il figlio e lo spinse fuori delle domestiche mura: non mancarono donne le quali, mentite o non mentite le vesti, vollero a ogni costo uscire a combattere con gli amanti o mariti loro.
“All’arme! all’arme! – il nemico appoggia le scale alle mura… Pieruccio le ha salite per darvene l’avviso”.
Un orlo di fuoco manifestò il contorno delle bastite di Firenze, le palle degli archibusi fioccarono spesse quanto la pioggia; gl’imperiali, disperati potersi più oltre nascondere, fatto buon viso alla fortuna, continuarono a salire, animosamente gridando: Sacco! palle! città presa!”
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