Poi, proprio al tramonto, Corrado prese ad urlare delirante:
«Umar, esci fuori! Esci fuori e veditela con me!»
Ma una voce alle sue spalle, proveniente dall’ingresso del cortile, lo supplicò:
«Ti prego, smettila!»
E lui:
«Nadira, vigliacca… è questa la tua pietà?»
Quella voce alle sue spalle allora si identificò avvicinandosi al palo. Pure un uomo dell’esattore preposto alla guardia si avvicinò, ma questi lo fece minaccioso e intento a fargli pagare l’insulto nei confronti della sua padrona.
«No, ti prego! È febbricitante… non sa quello che dice. Addirittura crede che io sia la promessa del Qā’id.»
Nonostante le implorazioni di Apollonia, la guardia minacciò:
«Un’altra parola e gli stacco la testa!»
Apollonia piangeva, mentre a pochi passi lo fissava preoccupata.
«Sono tua sorella. Guardami, Corrado, guardami!»
Ma lui ruotava la testa convulsamente e continuava a mugugnare un suono indefinito.
Apollonia dunque gli si gettò addosso in un abbraccio compassionevole. Corrado era l’uomo più alto del Rabaḍ e lei una delle ragazze più minute, perciò la testa della sorella si perdeva nel suo petto, lasciato scoperto dalla tunica strappata e dalla coperta sulle spalle.
«Coraggio… coraggio… non durerà tanto.»
«Sorella…» rispose lui a bassissima voce.
«Finalmente mi riconosci!»
«Da quanto tempo sei qui?»
«Da sempre… da sempre, fratello mio. Sarei rimasta anche dopo averti portato questa coperta la notte scorsa, ma nostra madre mi ha costretto a rientrare.»
«E loro dove sono?»
«Nostro padre e nostra madre hanno paura dell’uomo del Qā’id, ed impediscono pure a Michele di venire fin qui.»
«E tu, sorella?»
«Io sono niente, la consistenza di una goccia di rugiada… a chi importa di me?»
Corrado chiuse gli occhi ed ebbe in viso una sorta di spasmo, quindi le disse:
«Vai a casa. Non senti com’è forte il sole a quest’ora?»
La guardia intanto si era avvicinata nuovamente per impedire alla ragazza di prestargli aiuto.
«Sta’ lontana da lui!»
Apollonia si staccò da quell’abbraccio e rispose:
«Ma non vedi che sta delirando? Non è stata sufficiente la lezione?»
«Va’ a parlare con Umar… fosse per me lo avrei già liberato e sarei tornato a casa mia per starmene al caldo.»
Apollonia corse allora verso l’ingresso della casa dei padroni. Quando perciò Umar venne avvertito e giunse sulla porta, lei gli si gettò ai piedi e lo supplicò:
«Ti prego, Signore, qualunque cosa… ma lascia libero mio fratello!»
«Gli ho promesso tre giorni, non posso ritirare la parola data.»
«Non sopravvivrà a questa notte; ha la febbre alta! Ti prego, Signore, lega me a quel palo, ma lascialo andare o morirà.»
«Morirà se è stato scritto che morirà e vivrà se è stato scritto che vivrà… Gettagli addosso un’altra coperta se vuoi. E non umiliarti in questo modo per chi non lo merita.»
Perciò comandò a qualcuno lì accanto di consegnare del cibo alla ragazza prostrata ai suoi piedi e poi di mandarla via. Apollonia a questo si rimise in piedi e rispose arrabbiata, tanto che si fece sentire per l'intera casa:
«Non voglio il tuo cibo, ho già chi mi sfama!»
Dunque la porta le venne sbattuta in faccia senza che le fosse data la possibilità di impugnare quella decisione. Ora le gambe le cedettero e scivolò sulla porta, piangendo più forte di prima.
Quando poi il muezzin richiamò i fedeli per la ṣalāt 28 del tramonto, lei, osservando che la guardia si preparava ad inchinarsi verso La Mecca e di spalle al condannato, ne approfittò per violare la proibizione secondo cui non avrebbe potuto avvicinarsi.
«Corrado, mio respiro e vita… Corrado!»
Ma quello emanava una sorta di muggito, sommessamente e ad occhi chiusi.
Apollonia allora prese il suo viso tra le mani e gli disse:
«Ricorda chi sei, Corrado, ricorda chi è tuo padre.»
«Alfeo… del Rabaḍ.» rispose a stento.
«Corrado, fratello, ricorda chi è tuo padre.» ripeté disperatamente Apollonia, insoddisfatta della risposta.
«Alfeo… nostro padre.» ribadì lui, tenendo sempre gli occhi chiusi.
«Non ricordare chi ti ha amato come un figlio, ricorda invece chi ti ha generato. Quelle storie che mi raccontavi la sera davanti al fuoco, quelle che ti ha tramandato tuo padre... il tuo vero padre. Ricorda quando mi parlavi delle lande del nord, fatte di ghiaccio e neve, e di come la gente della tua stirpe sia abituata al freddo più estremo. Ricordalo, Corrado, e forse il tuo sangue da uomo del nord ti saprà scaldare per farti sopravvivere.»
«La compagnia normanna…»
«Esatto, Corrado, la compagnia normanna… continua a ricordare!»
«Mio padre, Rabel… Rabel de Rougeville.»
«Sì, Corrado, fu durante l’estate di vent'anni fa l’ultima volta che lo vedesti; me lo hai raccontato un sacco di volte.»
«Io vidi le mura di Siracusa…» borbottò infine, prima di perdere i sensi in un profondo sonno febbrile.
Inizio estate 1040 (431 dall’egira), dinanzi alle mura di Siracusa
Della Sicilia essa era la “porta per l’oriente”, la città che era stata la più gloriosa di tutto il Mediterraneo centrale prima dell’avvento di Roma, la patria dei tiranni e del grande Archimede, una perla tirata fuori dal fondo del mare da delfini divini; questa era Siracusa! Ed infatti la città aretusea era un obiettivo troppo prestigioso per essere ignorata, una tappa che il generale dell'Impero d’Oriente, Giorgio Maniace, non poteva trascurare nella sua missione.
La riconquista completa della Sicilia a favore di Costantinopoli non era cosa facile, e quindi, se si voleva riuscire nell’impresa, bisognava prendere Siracusa ai saraceni, così che questa diventasse una solida testa di ponte per l’arrivo dei rinforzi da est. La città d’altro canto era ben fornita, alimentata da fonti d’acqua interne e difesa da tenaci soldati, i quali si erano ritirati oltre le mura dopo gli scontri iniziali. Il richiamo dei muezzin sui minareti ricordava agli assedianti che conquistarla sarebbe stata un’impresa lunga e logorante.
Giorgio Maniace era un uomo rude e dispotico, e specie con le sue truppe e gli ufficiali al suo comando si dimostrava spesso violento… un perfetto guerriero per dirla tutta. Perfino il suo aspetto testimoniava il suo carattere bruto: orbo di un occhio, era alto più della media e i suoi lineamenti erano grezzi, spiacevoli. Tutto di lui incuteva timore, tanto tra i suoi quanto tra le disgraziate milizie saracene che ci si erano scontrate. Il suo valore era indiscusso già prima che l’Imperatore d’Oriente gli affidasse la missione di strappare la Sicilia agli arabi, ma adesso che da Messina fino alle porte di Siracusa ricomparivano le croci, la sua fama diventava assoluta. D’altronde serviva un carattere forte e un’autorità indiscutibile se si voleva riuscire in un’impresa più grande della stessa guerra contro l’Islam, cioè riuscire a controllare il variegato esercito da lui comandato. Erano molte le stirpi radunate al soldo di Giorgio Maniace: uomini di Costantinopoli e dei suoi possedimenti, pugliesi, calabresi, armeni, macedoni, pauliciani 29 … ma anche mercenari, i conterati 30 che brandivano la lancia al seguito del longobardo Arduino… la guardia variaga, nordici che avevano attraversato le steppe slave per servire l’Imperatore d’Oriente e guidati da Harald Hardrada… e i normanni del basso corso della Senna, tra i più abili guerrieri.
Proprio uno di questi ultimi - tuttavia non ancora soldato - se ne stava a guardare il mare intorno alla quinta ora del pomeriggio, spingendosi con lo sguardo oltre le rovine dell’antica città poste sulla terraferma. La città, infatti, un tempo era stata ben più grande, estendendosi anche su una parte considerevole della costa prospiciente l’isola di Ortigia, lì dove sorge il nucleo della famosa Siracusa. Da duecento anni, tuttavia, dopo il devastante assalto saraceno, consisteva della sola parte insulare e di un’esigua parte della penisola, finita già sotto il controllo di Maniace. A ciò che restava di Siracusa gli uomini rivolgevano i pensieri e le armi nel tentativo di riuscire in quell’assedio che durava ormai da mesi, oltre quel canale stretto ed esiguo che divideva la città.
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