piangere. Per un attimo vorrei avere qualcosa dietro per rompere
quel lucchetto. Ti odio, Step!
Risalgo in macchina e parto. Me ne vado in giro così, senza sapere
bene dove andare. Per un bel po'. Non so quanto. Non lo so.
So solo che ora cammino al mare. Persa nel vento, distratta dalle
onde, dalla cantilena delle correnti. Ma sto di un male. E poi mi
sento così stupida. Non ci credo, non è possibile. Mi manca da
morire
quello stronzo, mi manca tutto quello che avevo sognato. Sì,
certo, lo so, qualcuno mi potrebbe dire: "Ma Gin è normale. Cosa
ti aspettavi? Era la sua ragazza! Step è partito per l'America per
quanto stava male. È normale che ci sia ricaduto! ". Ah, sì? Ma
sentilo.
Dice così il tipo... Be', allora si dà il caso che io non sono per
niente normale, hai capito? Non mi ci sento e soprattutto non me
ne frega niente! Sì, è così. E allora? L'hai capito o no,
portasfiga
che non sei altro... Ah, ma io lo so, ne sono certa... Tu avevi
pensato
fin dall'inizio che sarebbe accaduto tutto questo, vero? Da
quando è iniziata la nostra storia... Be', sai che ti dico brutto
jellatore
che non sei altro? A me non me ne frega proprio niente di
niente. Perché io sono pazza! Va bene? Sì, sono pazza. Pazza di
lui
è vero, e di tutto quello che avevo sognato. Quindi te lo dico
subito,
se ti incontro, io ti spacco la faccia. Anzi no, meglio. Visto che
proprio lui insisteva tanto su questo, ti faccio un terzo dan che
te
lo ricordi a vita. E poi tu non puoi neanche immaginare quanto io
lo abbia desiderato.
Capitolo 76.
L'infermiere di turno è seduto davanti a un monitor. È sempre
lo stesso. Finisce di battere qualcosa al computer e poi mi vede
entrare.
Mi riconosce. S'irrigidisce di botto. Poi allarga le braccia,
accenna
un mezzo sorriso come a dire-: "Certo, certo, non è l'orario
ma puoi entrare".
"Grazie." Mi viene da ridere. Ma non è giusto. Mi sento anche
un po' in colpa. E non solo per questo. Lo so. Non mi piace
cambiare
le regole con la violenza. Ma ho bisogno di vedere mia madre.
Ora che l'ho ritrovata. Percorro il corridoio in silenzio. Dalle
camere
ai lati mi arrivano respiri affannati e doloranti. Tutto intorno
un
odore di pulito e di lavande. Ma un non so che di falso. Un uomo
si
trascina in pigiama con la barba incolta e gli occhi spenti. Ha
sottobraccio
una "Gazzetta dello Sport" di un rosa accartocciato. Forse
l'acquisto da parte della sua squadra di un nuovo giocatore
potrebbe
in qualche modo riaccenderlo. Chissà. Nel dolore le cose più
semplici
e banali assumono un valore inaspettato. Tutto diventa un
qualsiasi
appiglio per la vita, un interesse che in qualche modo ci possa
distrarre. Eccola. Sta riposando. Persa in un cuscino molto più
grande
del suo piccolo viso. Mi vede e sorride.
"Ciao, Stefano..."
Prendo una sedia lì vicino e mi metto ai piedi del suo letto.
"Allora?"
Mi guarda interrogativa. So già a cosa allude.
"Niente, non ce l'ho fatta. Mi dispiace. Gliel'ho detto."
"E com'è andata?"
"Mi ha picchiato."
"Oh, finalmente una che ti mena. Hai scelto la strada più
difficile.
È una ragazza molto particolare? "
La descrivo.
"E ho una foto."
Gliela faccio vedere. È curiosa. Piccole rughe appaiono sul suo
viso. Poi un sorriso di sorpresa. Poi di nuovo un segno di dolore
da
qualche parte nel suo corpo, nascosta, ben nascosta. Purtroppo.
"Ti devo dire una cosa..."
Mi preoccupo. Se ne accorge.
"No, Stefano. Non è niente d'importante... Cioè lo è, ma non
ti devi preoccupare."
Rimane per un po' in silenzio. Indecisa se dirmelo o no. Sembriamo
tornati a tanto tempo prima, quando io ero piccolo e lei,
lei stava bene. Mi faceva gli scherzi, mi nascondeva le cose, mi
prendeva
in giro, ci mettevamo a ridere. Mi viene da piangere. Non ci
voglio pensare.
"Allora, mamma, mi dici?"
"Io la conosco, Ginevra."
"La conosci?"
"Sì, hai molto gusto, cioè lei ha avuto molto gusto... insomma
è lei che ti ha scelto e tu hai combinato questo guaio..."
Preferisco non pensarci.
"Ma come la conosci? Cioè, come hai fatto?"
"Mi ha fatto giurare di non dirtelo. Come ho fatto? È lei che
mi ha voluto conoscere. Vedevo sempre questa ragazza che aspettava
sotto casa. Veniva spesso. All'inizio ho pensato che aspettasse
qualcuno che abitava nel palazzo. Poi però quando partivo con la
macchina la vedevo andar via. "
"E allora?"
"Allora un giorno me la trovo al supermercato e ci siamo urtate.
Non so se è stato un caso. Abbiamo fatto amicizia... Ci siamo
messe a parlare..." Tossisce. Si sente male. Lo sforzo è stato
tanto.
Cerca nell'aria dell'ossigeno, della vita, qualcosa... ma non
trova
nulla. Poi mi guarda e i suoi occhi pieni d'amore, di dolcezza,
occhi
di una donna che vorrebbe gridare. Ehi, che fai? Perché mi
guardi così? Sono tua mamma! Non puoi provare compassione per
me. E allora io torno suo figlio, egoista, ragazzino, insomma
proprio
come mi vuole lei.
"Allora, mi racconti bene?"
"Sì. Abbiamo fatto amicizia, non so come, ma abbiamo cominciato
a chiacchierare... Lei non sapeva che l'avevo già vista sotto
casa. Be', insomma, non ne sono tanto sicura. Fatto sta che le ho
raccontato un po' di me, di papà, di Paolo, di te..."
"Cosa le hai raccontato di me?"
"Di te?"
"Eh, di me e di chi sennò?"
"Che ti voglio bene, che mi mancavi, che eri andato fuori, che
saresti tornato... alla fine sembrava incuriosita della nostra
storia.
E chiedeva sempre se avevi telefonato... se ti eri fatto sentire."
"E tu?"
"E io che potevo dirle? Non sapevo mai niente di te. Poi ho saputo
che saresti tornato quel giorno, quando me lo ha detto Paolo
che ti sarebbe venuto a prendere all'aeroporto... E allora quando
con Ginevra ci siamo sentite..."
"Vi siete sentite? Ma perché, vi telefonavate pure?"
"Sì, c'eravamo scambiate il numero. Ma che cosa c'è di strano,
scusa? Eravamo diventate un po' come delle amiche."
Non riesco a crederci. Che strano. Sembra tutto così strano.
"Allora?"
"Allora che?"
"Niente, gliel'ho detto."
"E lei?"
"E lei ha continuato a chiacchierare, come se nulla fosse, ha
detto che si era iscritta e che andava in piscina... Ah sì, mi ha
fatto
ridere perché mi ha chiesto se volevo andare con lei... però se ci
penso una cosa strana c'è..."
Cosa?
"Da quando sei tornato sono andata spesso al supermercato..."
"E allora?"
"Da allora, non l'ho mai più incontrata."
La guardo. Rimango in silenzio. Poi annuisco e sorrido. Lei
vorrebbe
rispondere al mio sorriso, ma un'altra ondata di dolore le fa
chiudere gli occhi. Più a lungo stavolta. Le prendo la mano. Lei
me
la stringe con forza, una forza inaspettata. Poi allenta la presa
e riapre
gli occhi, stanca, più stanca di prima, accenna un sorriso.
"Stefano... ti prego..." Mi indica un bicchiere lì vicino. "Mi
porti
un po' d'acqua, per favore."
Prendo il bicchiere e mi alzo. Faccio alcuni passi e mi sento di
nuovo chiamare.
"Stefano..."
Mi giro. "Sì?"
"A questa mia amica Gin... mandale dei fiori, dei bellissimi
fiori."
Si poggia sul cuscino e mi sorride.
"Sì, mamma, certo..."
Esco dal reparto, trovo subito il bagno con l'acqua potabile che
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