Dean Koontz - Sussurri

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A ventinove anni, dopo un’infanzia e un’adolescenza difficili, la bella e intelligente Hilary Thomas è arrivata al successo. Ma quando viene aggredita nella sua lussuosa villa di Beverly Hills da un maniaco omicida, i peggiori incubi del passato sembrano rimaterializzarsi nei bagliori della lama acuminata del suo aggressore. Non basterà fuggire, non basterà lottare, non basterà nemmeno ucciderlo: lui tornerà, più forte della morte, a ossessionarla, costringendola a scavare disperatamente nei segreti sepolti per scoprire una realtà allucinante. Da Hollywood a Napa Valley, dalle piscine soleggiate delle dimore dei divi alla penombra umida di morte dell’obitorio, il ritmo tranquillo della vita quotidiana in California viene sconvolto da eventi ben più spaventosi e dirompenti dei terremoti ai quali la gente è ormai abituata. Esistono forze, nella mente umana, al confronto delle quali le scosse telluriche sono carezze e le urla di morte soltanto sussurri.

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Sfortunatamente per gli abitanti della California, le circostanze sembrarono agire in favore di Bobby. Gli agenti avevano commesso un insignificante errore di procedura al momento dell’arresto, proprio il genere di cose che normalmente portano i giudici a pronunciare un’appassionata arringa sui diritti costituzionali. A quell’epoca il procuratore, un certo Kooperhausen, era occupato a difendersi dall’accusa di corruzione politica. Consapevole del fatto che un atteggiamento scorretto al momento dell’arresto avrebbe potuto mettere in pericolo l’intero sistema giudiziario, e preoccupato di salvarsi il culo evitando uno scandalo, il procuratore accettò la proposta dell’avvocato difensore e giudicò Bobby colpevole di tre casi di stupro e di un omicidio, lasciando cadere tutti gli altri capi d’accusa. Molti detective della squadra omicidi, fra cui Tony Clemenza, ritenevano che Kooperhausen avrebbe dovuto fare il possibile e condannarlo per omicidio di secondo grado, rapimento, violenza e sodomia. Le prove erano schiaccianti. Tutto sembrava essere contro Bobby, ma il destino l’aveva inaspettatamente aiutato.

Bobby era tornato un uomo libero.

Ma non per molto, pensò Tony.

In maggio, un mese dopo essere stato rilasciato, Bobby «Angel» Valdez non si era presentato all’incontro con l’agente di polizia. Aveva abbandonato il vecchio appartamento senza compilare i documenti necessari e senza presentarli alle autorità. Era svanito nel nulla.

In giugno, aveva ricominciato a violentare. Detto, fatto. Così come si riprende a fumare dopo essere riusciti a smettere per alcuni anni. Come rinasce l’interesse per un vecchio hobby. Aveva molestato due donne in giugno. Due in luglio. Tre in agosto. Altre due nei primi dieci giorni di settembre. Dopo ottantotto mesi passati dietro le sbarre, Bobby desiderava ardentemente la carne di una donna: era un bisogno insaziabile.

La polizia era convinta che quei nove crimini e forse anche molti altri mai denunciati fossero opera dello stesso individuo, ed erano altrettanto sicuri che il responsabile fosse Bobby Valdez. Innanzitutto, tutte le donne erano state avvicinate nello stesso modo. L’uomo faceva la sua comparsa mentre le vittime scendevano dalla macchina da sole, di notte, in un posteggio. Dopo aver puntato la pistola alla schiena oppure sulla pancia, lui esclamava: «Sono un simpaticone. Vieni a festeggiare con me e non ti farò del male, ma, se rifiuti, ti farò saltare le cervella. Se starai al gioco, non avrai nulla da temere. Sono un gran simpaticone.» Ripeteva praticamente la stessa cosa ogni volta e le vittime ricordavano bene quelle frasi un po’ strane, pronunciate con la voce acuta e quasi femminea di Bobby. Era lo stesso tipo di approccio che Bobby aveva usato più di otto anni prima, quando aveva iniziato la sua carriera di violentatore.

Inoltre, le nove vittime avevano fornito descrizioni incredibilmente simili dell’uomo che le aveva violentate. Snello. Meno di 1.75. Circa settanta chili. Carnagione scura. Fossetta sul mento. Occhi e capelli scuri. Vocetta stridula. Alcuni dei suoi amici lo chiamavano «Angel» a causa del tono di voce e del bel visino da bimbo. Bobby aveva trent’anni ma ne dimostrava sedici. Le nove vittime avevano visto in faccia il loro aggressore e avevano riferito che assomigliava a un bambino ma si comportava come un maniaco intelligente e crudele.

Il capo barman del Paradise ordinò ai suoi due aiutanti di continuare senza di lui ed esaminò le tre foto segnaletiche di Bobby Valdez che Frank Howard aveva appoggiato sul bancone. Si chiamava Otto. Era un bell’uomo, abbronzato e con la barba. Indossava un paio di pantaloni bianchi e una camicia azzurra con i primi tre bottoni slacciati. Il torace scuro era coperto di peli biondi. Attorno al collo portava una catena d’oro con un dente di pescecane. Alzò lo sguardo verso Frank e corrugò la fronte. «Non sapevo che la polizia di Los Angeles avesse giurisdizione a Santa Monica.»

«Abbiamo ottenuto l’autorizzazione dal dipartimento di polizia di Santa Monica,» spiegò Tony.

«Eh?»

«La polizia di Santa Monica sta collaborando con noi in questo caso,» proseguì Frank impaziente. «Allora, ha mai visto questo tipo?»

«Sì, certo. È stato qui un paio di volte,» rispose Otto.

«Quando?» chiese Frank.

«Oh… un mese fa. Forse di più.»

«Non si è visto negli ultimi tempi?»

L’orchestra ritornò dopo una pausa di venti minuti e iniziò a suonare una canzone di Billy Joel.

Otto alzò la voce per farsi sentire. «Non lo vedo da almeno un mese. Il motivo per cui me lo ricordo è che non pensavo avesse l’età per bere alcolici. Gli ho chiesto di mostrarmi un documento di identità e lui è andato su tutte le furie. Ha fatto una scenata.»

«Che genere di scenata?» domandò Frank.

«Ha chiesto di vedere il direttore.»

«È tutto?» incalzò Tony.

«Mi ha insultato pesantemente.» Otto aveva uno sguardo inferocito. «E nessuno può permettersi di insultarmi così.»

Tony si mise una mano attorno all’orecchio per riuscire a decifrare le parole del barista nonostante la musica. Gli piacevano molto le canzoni di Billy Joel, ma non quando venivano suonate da un’orchestrina convinta che l’entusiasmo e gli amplificatori potessero supplire a uno scarso talento musicale.

«Quindi l’ha insultata,» disse Frank. «E poi?»

«Poi si è scusato.»

«Tutto qui? Chiede di vedere il direttore, la insulta e subito dopo si scusa?»

«Sì.»

«Perché?»

«Gliel’ho detto io,» spiegò Otto.

Frank si allungò sul bancone mentre la musica si trasformava in un frastuono assordante. «Si è scusato semplicemente perché gliel’ha chiesto lei?»

«Be’… all’inizio voleva fare a botte.»

«E vi siete picchiati?» chiese Tony.

«No. Anche se arrivasse qui il peggiore figlio di puttana rompiballe di questo mondo, non mi abbasserei certo a toccarlo per dargli una regolata.»

«Deve avere un carisma molto speciale,» sbottò Frank.

Il gruppo concluse il coro e il frastuono raggiunse un livello di decibel da far scoppiare le orecchie. Il cantante si esibì in una pessima imitazione di Billy Joel in un brano che ricordava il fragore di un temporale.

Accanto a Tony era seduta una stupenda biondina con gli occhi verdi. Aveva ascoltato l’intera conversazione. A un certo punto disse: «Coraggio, Otto. Fagli vedere il tuo trucchetto.»

«È un mago?» chiese Tony a Otto. «Che cosa è in grado di fare? Forse fa scomparire i clienti troppo turbolenti?»

«Si limita a spaventarli,» proseguì la biondina. «È molto semplice. Coraggio, Otto. Fagli vedere.»

Otto si strinse nelle spalle, si chinò sotto il bancone e prese un boccale di birra. Lo alzò perché i presenti potessero osservarlo, come se non ne avessero mai visto uno prima di allora. Poi lo addentò. Afferrò con i denti il bordo e ne staccò un pezzo, si girò e sputò il frammento tagliènte nel cestino dell’immondizia.

L’orchestra esplose con l’ultimo coro della canzone e regalò al pubblico un attimo di silenzio misericordioso. Nell’improvvisa pace fra l’ultima nota e lo scroscio di applausi, Tony udì il boccale di birra che scricchiolava mentre Otto addentava un altro boccone.

«Cristo,» sbottò Frank.

La biondina si mise a ridacchiare.

Otto continuò a masticare il vetro e a sputarne i frammenti fino a quando il bicchiere fu ridotto al solo fondo, decisamente troppo duro per la dentatura e le mandibole di un uomo. Gettò quello che rimaneva del boccale nel cestino e sorrise. «Di solito mi metto a masticare il vetro proprio di fronte al tipo che sta causando qualche problema. Poi lo fìsso con aria minacciosa e gli suggerisco di darsi una calmata. E per finire, minaccio di staccargli quel fottutissimo naso con un morso.»

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