Eppure sapevo di non essermi addormentata. Questa allarmante consapevolezza — e forse il disagio provocato dalle storie che il signor Jeffries aveva raccontato nella cappella — fecero sì che il cuore mi cominciasse a battere più forte. Con un senso di inesplicabile terrore, mi avvicinai al sedile nella rientranza e con timore tirai la tenda, appena a sufficienza per poter vedere la finestra di Zsuzsanna ma per non essere vista.
Stanotte, la luna piena brillava in un cielo senza nubi, illuminando la campagna come fosse giorno. Potevo del tutto chiaramente vedere ogni filo d’erba, ogni fiore di campo sulla striscia di terra tra la nostra finestra e quella di Zuzsanna, sebbene i colori fossero sbiaditi in gradazioni di grigio leggermente diverse.
Sapevo che Vlad era là: lo sapevo, sebbene anche ora non sappia dire come ne fossi venuta a conoscenza. Lo sapevo, anche prima di vedere che le imposte erano state nuovamente spalancate e la finestra aperta. La lampada nella stanza era spenta, tanto che non riuscivo a vedere chiaramente all’interno ma, a pochi piedi oltre le imposte aperte, vidi delle ombre che si muovevano nell’oscurità, un lampo bianco contro il nero, e seppi, con la stessa impossibile certezza, che erano la pallida pelle di Zuzsanna contro il mantello di Vlad.
Per quanto tempo rimasi alla finestra non so dirlo esattamente. La mia percezione indica ore, ma per l’orologio erano minuti. Rimasi comunque paralizzata a guardare finché le ombre non si ritrassero dalla mia vista per inoltrarsi nella stanza buia… verso il letto.
Dopo un po’, l’ombra più scura riapparve e si arrampicò agilmente sul davanzale, lasciandosi cadere sull’erba per qualche metro, con l’agilità senza sforzo di un giovane.
Era Vlad. Lo vidi chiaramente, senza possibilità di errore, con i capelli bianchi e la pelle che mandavano riflessi nella chiara luce lunare. Si guardò alle spalle, furtivo come un ladro che scappa, poi cominciò a correre.
Passò molto vicino alla mia finestra e io mi ritrassi, non osando respirare, tirando le tende in modo tale che rimanesse soltanto una piccola apertura, contro la quale premetti un occhio. Mentre guardavo, lui si curvò in avanti e cominciò a muoversi carponi, a lunghi passi, come un animale, mentre il suo scuro mantello si richiudeva.
E sotto il mio stesso sguardo…
È impossibile. Impossibile! È follia, eppure so di essere del tutto sana di mente.
Era come osservare la crescita di un figlio, estremamente accelerata, tanto che la trasformazione di anni si verificava in pochi secondi. Sotto il mio sguardo, le sue gambe si accorciarono, le braccia si allungarono, e il naso e la mascella si protesero in avanti, allungandosi fino a formare un lungo e sottile muso pieno di aguzzi denti canini. Il tessuto del mantello e dei pantaloni sembrarono scomparire dentro la pelle e cambiare colore e consistenza finché non furono più nera seta ma una pelliccia grigio argentea.
Davanti ai miei occhi, si trasformò in un grande lupo grigio.
Gridai per lo spavento. Non credo che il suono che emisi fosse forte, nondimeno Vlad — il lupo — si fermò e si voltò in direzione della mia finestra, guardandola con grandi occhi chiari.
E — forse questa parte è immaginazione — vidi quelle labbra canine scoprire dei denti appuntiti, atteggiandosi leggermente nello stesso ghigno da predatore che aveva diretto a me, quando indugiava nell’abbraccio di Zsuzsanna al pomana.
Nella mia vita non sono mai stata più vicina a svenire. Lasciai andare la tenda e mi ritrassi barcollando fino al muro, poi mi appoggiai contro di esso, timorosa che, se lo avessi lasciato, non sarei stata capace di reggermi in piedi.
Quando, infine, mi sono ripresa, sono corsa alla scrivania per scrivere tutto questo, per timore che, al mattino, mi sarei convinta che non era altro che un incubo.
Posso udire, in distanza, l’avvicinarsi di Arkady con il calesse. Ero stata così preoccupata per tutta la sera di raccontargli di Zsuzsanna e Vlad!
Che cosa gli dirò adesso?
Che cosa posso dirgli?
Il diario di Arkady Tsepesh
10 aprile. Sera tardi. Jeffries è svanito. Penso che lo abbiano ucciso.
Sono ritornato con lui al castello abbastanza tardi, verso l’una o le due del mattino. Non ho disturbato lo zio, sebbene sospettassi che fosse ancora sveglio a quell’ora tarda e Jeffries ha detto che sicuramente avrebbe presentato le mie scuse per averlo riportato molto più tardi di quanto indicasse il biglietto che avevo lasciato. Sentivo di non avere il diritto di sottrarre nuovamente allo zio la compagnia del signor Jeffries il giorno seguente, ma lo invitai ugualmente per il thè del pomeriggio.
Questo pomeriggio, sono partito presto diretto al castello per andare a prendere Jeffries per il thè. Mentre entravo con il calesse nel cortile, Laszlo se ne stava appena andando in carrozza con un grosso involto sul sedile accanto a lui. Al vedermi sembrò allarmarsi: frustò immediatamente i cavalli e si affrettò ad andarsene.
Considerai la sua fretta e la sua riluttanza a parlarmi come un segno della sua avversione, e non riflettei molto su ciò o sull’involto accanto a lui, fino a quando, più tardi, cercai Jeffries nella stanza degli ospiti. Se n’era andato: il bagaglio e il blocco per appunti si trovavano nelle sue stanze, così come il biglietto che gli avevo inviato da parte dello zio piegato con cura, ma una ricerca nel castello si dimostrò senza frutto. Non era in nessun luogo, e nessuno dei domestici ammise di averlo visto.
Preso dalla disperazione, li chiamai uno per uno nel mio ufficio e li interrogai. Nessuno di loro sembrava saper nulla della misteriosa sparizione del visitatore (sfortunatamente, Masika Ivanovna oggi non è venuta al castello, poiché suo figlio è morto. Ma ne saprò di più, giacché ho in programma di partecipare al funerale). Per ultimo, ho parlato con Laszlo alcune ore più tardi, quando finalmente è ritornato al castello.
Mentre lo facevo, ho notato che aveva sul panciotto un orologio d’oro con catena che non avevo mai visto prima; con un’ispirazione nata dall’orrore, gli domandai di tirare fuori l’orologio e di farmelo vedere.
Così fece, e io trattenni il fiato quando i miei occhi riconobbero la grande “J” d’argento incisa sulla superficie dorata dell’orologio. Una tale sfacciataggine! Durante la mia ispezione, lo tenne con la stessa mano che ora portava l’anello d’oro di Jeffries.
Persi completamente la calma e gli gridai:
«Come osi rubare a un ospite di questa casa! Sei licenziato immediatamente! Vedi di non mettere più piede di nuovo in questa proprietà!».
Sollevò il mento pronunciato, con aria di sfida, senza rimorso.
«Oh, non me ne andrò, signore. Ci penserà il voievod. Inoltre, voi non avete l’autorità per licenziarmi».
La sua arroganza mi rese furioso; il calore mi invase il viso mentre gridavo:
«Non c’è dubbio su ciò! Vedremo cosa Vlad ha da dire quando gli dirò che sei un ladro!».
«Io non sono un ladro», ribatté. «I morti non possiedono nulla».
Un gelo orrendo mi strinse il cuore. Pensai al terrore negli occhi di Masika nel capire che Laszlo aveva udito, e che ora suo figlio era morto.
«Che cosa stai dicendo Laszlo? Che il signor Jeffries è morto?»
«Non dico niente».
«Ne parlerò immediatamente allo zio», lo minacciai, alla qual cosa lui ridacchiò semplicemente, mi voltò la schiena senza nemmeno chiedermi il permesso, e si incamminò verso la porta.
E, mentre lo faceva…
Mentre lo faceva, vidi sulla parte posteriore di una delle sue due maniche bianche una grande macchia rossa delle dimensioni di una mela. Un gelo orribile discese su di me; non so come spiegarlo ma, in quel momento, seppi nel mio cuore che Jeffries era morto, e che io stavo guardando il suo assassino.
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