Ma Zsuzsanna non si è presentata a colazione né a pranzo. Arkady era così turbato da qualche segreta pena che non l’ha nemmeno notato ma, dopo quello che avevo visto, io mi sono preoccupata, e così ho bussato alla porta della camera di mia cognata nel primo pomeriggio.
Lei ha risposto debolmente, dicendomi di entrare, ed io ho aperto la porta e l’ho trovata ancora in camicia da notte a letto, seduta con i lunghi e neri capelli sparsi sui cuscini. I suoi occhi sono grandi come quelli di Arkady ma, diversamente da quelli di lui, sono molto scuri, e oggi erano sottolineati da un’ombra che enfatizzava il suo pallore. Infatti, sembrava penosamente pallida e tirata; le sue labbra e le guance avevano perduto la loro solita traccia rosea.
«Zsuzsanna, cara», dissi, portandomi al suo fianco. «Oggi mi è mancata la tua compagnia, e sono venuta a vedere come stavi. Non stai bene?»
«Mia dolce Mary! Sono solo stanca. Non ho dormito bene la notte scorsa».
La sua risposta mi ha fatto arrossire, ma non penso che lei l’abbia notato. Ha sorriso al vedermi e mi ha afferrato la mano; la sua era fredda. Ho supposto che il suo pallore fosse causato da qualche disturbo femminile, e così non ho insistito per saperne la causa, ma temo che sia anche — almeno in parte — dovuto al mal d’amore e al senso di colpa. Sembrava così piccola e fragile, lì contro i cuscini, che era impossibile pensare a lei come a un adulto responsabile; persino la sua voce e la sua espressione erano quelle di un bambino.
«Hai mangiato?», le ho chiesto. «Ti posso portare qualcosa?»
«Oh, sì! Sono davvero affamata. Pensa che Dunya mi ha portato due vassoi pieni, e ho mangiato tutto». Diede un colpetto al cane, che giaceva soddisfatto ai piedi del letto e che batté la coda al suono del suo nome. «È tutta colpa di Bruto! Ha abbaiato per tutta la notte, e non mi ha permesso di dormire. Ho dovuto metterlo in cucina, e ci starà anche stanotte!».
«Forse è più saggio permettergli di restare». La guardai intensamente in cerca di una reazione. «Abbaia solo per proteggerti».
Rise. I suoi occhi erano grandi e innocenti.
«Proteggermi? Da cosa? Dai topi di campagna?»
«Dai lupi», dissi, tetramente. «Ho pensato di averne visto uno vicino alla tua finestra la notte scorsa. Devi fare attenzione».
Allora seguì una pausa imbarazzata; socchiuse gli occhi e mi gettò un veloce sguardo espressivo prima di voltarsi e fingere di prestare attenzione al cane ai suoi piedi. Lo accarezzò per parecchi secondi, in silenzio.
All’improvviso scoppiò in lacrime e alzò il viso contorto verso di me mentre mi stringeva il braccio con entrambe le mani.
«Per favore… non dovete tornare in Inghilterra! Diteglielo… per favore! Se mi lasciate tutti, io morirò! Nessuno di voi deve lasciarmi…!».
Piangeva con la disperazione di un bambino.
Io rimasi sorpresa più di quanto possa dire da quell’inattesa reazione emotiva, ma la presi come una chiara ammissione di colpa e una confessione d’amore. Non le sarebbe importato tanto se fossimo stati io e Arkady a partire, ma sarebbe morta se a partire fosse stato il suo prozio.
«Mia cara», la blandii, «noi non ti lasceremmo mai. Non devi nemmeno pensare una tale cosa».
«Diglielo! Diglielo!», ripeteva con voce soffocata, e mi stringeva il braccio così disperatamente che glielo dovetti promettere immediatamente:
«Sì, sì, glielo dirò e molto presto».
So che non si riferiva a suo fratello. So di chi si trattava, anche troppo bene.
Dalla sua reazione, temo che il senso di colpa l’abbia condotta a un esaurimento nervoso. Rimasi seduta un po’ lì con lei e la calmai, non dicendole nient’altro di quello che avevo visto, per timore di provocarle un’altra crisi. Aveva sofferto abbastanza, povera cara, e io non posso fare altro che affrontare l’argomento con mio marito… o con lo stesso Vlad.
Però io sono appena arrivata nella famiglia; non spetta certo a me mettere al suo posto il patriarca. So che devo parlare ad Arkady e presto. Ma, sebbene mio marito non sia andato al castello che a pomeriggio inoltrato, non sono riuscita a parlargli: non ho saputo trovare le parole.
Allo stesso tempo, non riesco a sopportare che qualcuno approfitti ulteriormente della povera e confusa Zsuzsanna. Così decisi che avrei atteso il ritorno di Arkady a casa quella sera per parlargli, e passai il pomeriggio scegliendo con cura le frasi che avrebbero sicuramente fatto breccia nel suo cuore.
Con mio sgomento e sollievo, mio marito è tornato a casa solo dopo alcune ore, con un inglese che era in visita al castello, un certo signor Jeffries. Arkady era così contento di avere un ospite — e devo ammettere, nonostante la tristezza, che anch’io ho goduto della sua compagnia e l’ho trovato una piacevole distrazione dalle mie preoccupazioni — che non me la sono sentita di rovinare il suo buon umore.
Abbiamo cenato presto, con il nostro ospite. Come mi aspettavo, Zsuzsanna non è scesa per la cena, e ha mandato un messaggio tramite Dunya, dicendo che era ancora indisposta.
Il signor Jeffries, a quanto pare, è un giornalista, recentemente ritornato nel continente dopo un viaggio in cerca di notizie in America. Durante tutta la cena ha parlato animatamente della situazione in quel Paese; hanno eletto un nuovo Presidente — James Polk — e potrebbero presto annettersi un nuovo Stato dall’esotico nome di Texas.
Nel Texas è permessa la schiavitù, e ciò ha creato molte controversie nel Paese. Non solo i Nordisti sono abolizionisti e i padroni delle piantagioni del Sud non lo approvano, ma uno Stato vicino rivendica contemporaneamente la proprietà del territorio. Secondo il signor Jeffries, è imminente una guerra tra gli Stati Uniti e il Messico. Gli Americani sono anche coinvolti in un contenzioso con l’Inghilterra riguardo alla posizione del confine nord-occidentale del Canada. Per finire, sembrano litigiosi e prepotenti, e io sono stata contenta di trovarmi nella tranquilla Transilvania. Il signor Jeffries ci ha fatto ridere con la sua imitazione nasale dell’accento americano; dopo tutta la tensione che Arkady ha provato, so che gli ha fatto bene.
Dopo cena, il signor Jeffries ha ricordato ad Arkady la sua promessa di portarlo a visitare la cappella, e allora ho detto che anch’io volevo andare, poiché non l’avevo ancora vista. I due uomini mi hanno guardato preoccupati, e Arkady ha mormorato qualcosa circa il fatto che era tardi (non era molto oltre le otto) e circa il necessario riposo date le mie condizioni.
Con decisione, ho respinto tutte quelle obiezioni come delle sciocchezze e ho chiesto solo un momento per andare a prendere il mio scialle. Allora il signor Jeffries ha sorriso, dicendo con arguzia che non avrei problemi a tener testa agli Americani, e abbiamo riso di nuovo.
In verità, non volevo essere lasciata sola a preoccuparmi di cosa avrei detto ad Arkady quando il nostro ospite fosse partito, né volevo rimanere da sola nella camera da letto a guardare attraverso la finestra, preoccupandomi per Zsuzsanna.
La cappella era diversa da qualunque altra abbia mai visto in Inghilterra, e più di ogni altra cosa che io abbia visto in questo Paese rivelava l’influenza turca. Le pareti interne erano coperte di pitture e mosaici di santi — letteralmente a centinaia — alla maniera bizantina. Vicino all’altare c’era una cupola da cui pendeva un enorme lampadario e, alle spalle del grande santuario, contro il muro, c’erano delle grandi nicchie con dei nomi incisi su targhe d’oro.
Sebbene le belle pareti ricoperte di mosaici mi facessero trattenere il fiato, il signor Jeffries sembrò interessato soprattutto alle nicchie, che erano in realtà dei loculi costruiti nel muro come celle di api, poi chiusi con la malta, sigillati con la pietra, e adornati con le targhe. Mentre leggevamo i nomi degli antenati di Arkady, ammutoliti per la bellezza del santuario e per l’atmosfera sacra, il signor Jeffries prese un piccolo blocco per appunti dal suo gilet e cominciò a scrivere.
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