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Ursula Le Guin: Il mondo di Rocannon

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Ursula Le Guin Il mondo di Rocannon

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In un mondo ai confini della Galassia, tre razze native – gli Odemiar, abitanti delle caverne, gli elfici Fiia e i Liuar, guerrieri divisi in clan – vengono improvvisamente aggredite e conquistate da una flotta di astronavi provenienti da un universo sconosciuto. Lo scienziato terrestre Rocannon, che si trova in quel mondo, assiste impotente allo sterminio dei suoi amici e alla distruzione della sua astronave. Abbandonato tra popoli alieni, Rocannon guida allora la battaglia per la liberazione, scoprendo che, in breve tempo, la sua figura assume contorni leggendari e che qualcuno lo considera addirittura un dio…

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Ursula K. Le Guin

IL MONDO DI ROCANNON

PROLOGO

LA COLLANA

Come si può distinguere tra leggenda e realtà, su mondi che giacciono a molti anni di distanza dal nostro? Pianeti senza nome, che i nativi chiamano semplicemente «il Mondo»; pianeti senza storia, dove il passato è materia di mito e dove l'esploratore che vi fa ritorno scopre che le sue azioni di pochi anni prima sono diventate le gesta di un dio. Un velo buio di irrazionalità si stende sull'intervallo di tempo che le nostre astronavi attraversano alla velocità della luce, e nell'oscurità proliferano l'incertezza e le esagerazioni, come erbacce.

Accingendosi a riferire la storia di un uomo, di un normale scienziato della Lega, recatosi non troppi anni fa su un simile mondo semisconosciuto e senza nome, ci si sente come un archeologo che esplori rovine millenarie: ora, dopo essere avanzato a fatica fra un compatto groviglio di foglie, fiori, rami e rampicanti, scorge all'improvviso la chiara geometria di un arco o di una pietra angolare levigata; ora, varcando una comunissima soglia illuminata dal sole, nota nel buio l'impossibile guizzo di una fiamma, lo scintillio di una gemma, il movimento, intravisto solo a metà, di un braccio di donna.

Come si può distinguere fra realtà e leggenda, fra verità e verità?

Nella storia di Rocannon incontriamo varie volte, come elemento ricorrente, la gemma, l'azzurro luccichio che si lascia intravedere per un istante. Cominciamo perciò da quella, così come segue:

Area Galattica 8, N. 62. FOMALHAUT II.

Forme di vita a intelligenza elevata, specie contattate:

Specie I.

A) Gdemiar (singolare Gdem): a intelligenza elevata, trogloditi, con abitudini notturne, pienamente ominoidi, altezza 120–135 cm, pelle chiara, capelli scuri. Al momento del contatto, questi cavernicoli possedevano una società urbana oligarchica, rigidamente stratificata, modificata dalla presenza di una parziale telepatia coloniale, e una cultura a indirizzo tecnologico, inizio dell'Età dell'Acciaio. Tecnologia portata a Industriale, livello C, dalle Missioni della Lega, anni 252–54. Nel 254, una nave con pilota automatico (per/da Nuova Georgia del Sud) è stata fornita agli oligarchi della comunità del Mare di Kirien, livello C, grado primo.

B) Fiia (singolare Fian): a intelligenza elevata, diurni, pienamente ominoidi, altezza media ca. 130 cm; gli individui osservati avevano in genere pelle e capelli chiari. Gli sporadici contatti indicano comunità nomadiche, o con villaggi (stanziali), parziale telepatia coloniale; qualche testimonianza di capacità telecinetiche a corto raggio. La razza sembra antitecnologica e sfuggente, con modelli culturali minimi e fluidi. Attualmente non tassabile. Livello E, grado imprecisato.

Specie II.

Liuar (singolare Liu): a intelligenza elevata, diurni, pienamente ominoidi, statura media superiore a 170 cm. Questa specie possiede una società strutturata in clan, con villaggi fortificati, tecnologia giunta a un punto d'arresto (Età del Bronzo), cultura cavalleresco-feudale. Notata una spaccatura orizzontale della società in due pseudo-razze: a) Olgyior («plebei»), con pelle chiara e capelli scuri; e b) Angyar («signori»), assai più alti, con pelle scura e capelli biondi…

— È lei — disse Rocannon, alzando gli occhi dalla Guida delle forme di vita intelligenti (edizione ridotta tascabile) per osservare la donna alta, scura di pelle e dai capelli biondi, ferma più avanti, nella grande sala del museo. Eretta in tutta la sua statura, incoronata dalla chioma lucente, la nuova venuta fissava con attenzione il contenuto di una vetrina. Intorno a lei, chiaramente a disagio là dentro, si agitavano quattro nanerottoli sgraziati.

— Non sapevo che su Fomalhaut II ci fossero tante razze, oltre ai trogloditi — commentò Ketho, il curatore del musco.

— Neanch'io. E il manuale elenca altre razze «non confermate», con cui non siamo mai entrati in contatto. Sembrerebbe giunta l'ora di mandare una nuova missione esplorativa, che svolgesse un lavoro più approfondito. Comunque, almeno sappiamo cos'è quella donna.

— Certo, e mi auguro che possiamo anche sapere chi è…

Apparteneva a una famiglia antichissima, risalente ai primi re degli Angyar, e nonostante la povertà, nei suoi capelli splendeva l'oro purissimo degli antenati.

Il piccolo popolo, i Fiia, s'era sempre inchinato al suo passaggio, fin da quando era una bambina che correva a piedi nudi nei campi, animando con il fuoco e la luce della sua chioma i venti irrequieti di Kirien.

Era ancora giovanissima allorché Durhal di Hallan l'aveva scorta, le aveva dichiarato il suo amore e l'aveva tolta alle torri diroccate e agli atri ventosi dell'infanzia per condurla nel suo grande castello. Anche a Hallan, sui monti, gli agi e le comodità erano assenti, ma lassù rimaneva ancora lo splendore. Alle finestre non c'erano vetri, i pavimenti di pietra erano nudi; la mattina, nell'annofreddo, capitava di vedere sotto il davanzale un mucchietto lungo e basso di neve penetrata durante la notte. La sposa di Durhal scendeva a piedi scalzi sul pavimento coperto di neve: in piedi si pettinava i capelli di fuoco, raccogliendoli in trecce che poi annodava sul capo, e intanto sorrideva all'immagine del giovane marito, riflessa nello specchio d'argento appeso alla parete della loro camera. Quello specchio, insieme con la veste nuziale della madre, ricamata di mille cristalli minuscoli, costituiva l'intera ricchezza della giovane.

Al castello di Hallan, molti suoi consanguinei di grado inferiore possedevano ancora guardaroba di broccato, mobili di legno intarsiati d'oro, finimenti d'argento per i grifoni, corazze, spade con l'impugnatura d'argento, gemme e gioielli… che la sposa di Durhal guardava con invidia, al punto di voltarsi per dare un'occhiata furtiva a qualche diadema incastonato o a qualche monile d'oro, anche quando chi lo portava si scostava per cederle il passo, in deferente omaggio alla sua nascita e al rango elevato conseguito con il matrimonio.

Quarti a partire dall'Alto Seggio dei Banchetti di Hallan, sedevano infatti Durhal e la sua sposa Semley: così vicini al Signore di Hallan che spesso il vecchio versava di propria mano il vino a Semley e parlava di caccia con Durhal, suo nipote ed erede, rimirando la giovane coppia con affetto, ma senza gioia e senza speranza.

La speranza era dura a nascere tra gli Angyar, sia al castello di Hallan, sia nelle Terre Occidentali, da quando erano giunti i Signori delle Stelle, con le loro case che si muovevano su colonne di fuoco e con le loro armi spaventose, capaci di spianare le montagne. Avevano messo fine alle vecchie abitudini e alle vecchie lotte; e sebbene si trattasse di somme modeste, per gli Angyar era motivo di grande vergogna dover pagare loro una tassa, un tributo destinato alla guerra che i Signori delle Stelle si preparavano a combattere contro un nemico ignoto, chissà dove, nella cavità tra le stelle, alla fine degli anni.

«È una guerra che riguarda anche voi», affermavano, ma ormai da una generazione gli Angyar erano costretti a rimanere oziosi, nella vergogna, seduti nelle Sale dei Banchetti, mentre le doppie spade si coprivano di ruggine, i figli diventavano adulti senza sferrare un solo colpo in battaglia, le figlie erano costrette a sposare uomini poveri, o addirittura plebei, poiché mancava loro la dote di eroico bottino che avrebbe fatto accorrere mariti nobili. La faccia del Signore di Hallan s'incupiva, quando guardava la coppia di giovani dai biondi capelli e ascoltava le loro risate, mentre bevevano vino amaro e si scambiavano frasi scherzose nella gelida, diroccata, splendida fortezza della loro razza.

E si incupiva anche il viso di Semley, quando posava lo sguardo sulla sala e scorgeva, su scanni molto più bassi del suo, o addirittura fra i mezzosangue e i plebei, fra le pelli bianche e i capelli neri, il colore e lo sfavillio delle pietre preziose. Di suo, non aveva portato nulla al marito in dote nuziale, neppure una forcina d'argento. E quanto alla veste dai mille cristalli, l'aveva riposta nella cassapanca, serbandola per le nozze della figlia, se fosse stata una figlia.

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