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Ursula Le Guin: Il mondo di Rocannon

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Ursula Le Guin Il mondo di Rocannon

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In un mondo ai confini della Galassia, tre razze native – gli Odemiar, abitanti delle caverne, gli elfici Fiia e i Liuar, guerrieri divisi in clan – vengono improvvisamente aggredite e conquistate da una flotta di astronavi provenienti da un universo sconosciuto. Lo scienziato terrestre Rocannon, che si trova in quel mondo, assiste impotente allo sterminio dei suoi amici e alla distruzione della sua astronave. Abbandonato tra popoli alieni, Rocannon guida allora la battaglia per la liberazione, scoprendo che, in breve tempo, la sua figura assume contorni leggendari e che qualcuno lo considera addirittura un dio…

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— Sono la moglie di Durhal. Vengo a prendere la mia dote, Padre.

L'ubriaco brontolò, disgustato; ma lei rise così dolcemente che lo costrinse a guardarla di nuovo, con un brivido.

— È vero, Padre, che furono i Fiia a rubare la collana chiamata Occhio del Mare?

— E lo chiedi a me? Vecchie storie. Quella collana è scomparsa prima che io nascessi, mi pare. Anzi, meglio che non fossi nato. Se proprio ti interessa saperlo, devi chiederlo ai Fiia. Va' da loro, torna da tuo marito, ma lasciami in pace, A Kirien non c'è posto per le ragazze, per l'oro e per il resto di quella storia. Qui le storie sono finite: il castello è caduto, la sala è vuota. Tutti i figli di Leynen sono morti, tutti i loro tesori si sono persi. Vattene per la tua strada, ragazza.

Grigio e gonfio come il ragno di una casa in rovina, le voltò le spalle e si avviò barcollando verso la cantina dove si nascondeva alla luce del sole.

Conducendo per la briglia il destriero dal manto a strisce, Semley lasciò la sua vecchia casa e discese la ripida collina, oltrepassando il villaggio dei plebei, che l'accolsero con rispetto, ma con poca simpatia, e proseguendo per i campi e per i pascoli dove brucavano i grandi herilor parzialmente selvaggi, dalle ali tarpate, fino a una valle che era verde come una tazza dipinta colma di sole fino all'orlo. In fondo alla valle c'era il villaggio dei Fiia: vedendola scendere con il grifone alla briglia, le piccole e snelle creaturine lasciarono le capanne e gli orticelli e corsero verso di lei, ridendo e chiamandola con le voci acute e sottili.

— Salve, Sposa di Hallan, Signora di Kirien, Padrona del Vento, Semley la Bella!

La chiamavano sempre con nomi bellissimi, e a lei piaceva ascoltarli, senza fare caso alle loro risate, perché i Fiia ridevano di tutto ciò che dicevano. Era il loro modo di vivere: ridere e parlare. Si fermò in mezzo a loro, alta nel suo lungo mantello azzurro, mentre quelli le davano il benvenuto turbinandole intorno.

— Salve, Popolo della Luce, Abitatori del Sole, Fiia Amici degli Uomini!

La condussero al villaggio e la invitarono in una delle loro case ariose, seguiti per tutto il tragitto da un codazzo di bambini piccolissimi. Era impossibile determinare l'età di un Fian adulto; era molto difficile distinguerli l'uno dall'altro, e addirittura essere certi, mentre si muovevano svelti all'intorno, veloci come falene che roteano intorno a una fiamma, di parlare sempre allo stesso individuo. Ma a Semley parve di essersi sempre rivolta a uno solo dei Fiia, almeno all'inizio, mentre gli altri davano da mangiare al suo grifone e lo accarezzavano, portavano acqua da bere anche a lei e cestini di frutta, coltivata nei loro frutteti di piccoli alberi. — Non sono stati i Fiia a rubare la collana dei Signori di Kirien! — esclamava l'ometto. — Signora, cosa se ne farebbero dell'oro, i Fiia? Abbiamo la luce del sole nell'annocaldo, e nell'annofreddo il ricordo di quella luce; i frutti gialli e le foglie gialle quando la stagione finisce, i biondi capelli della nostra signora di Kirien. Non abbiamo altro oro.

— Allora fu rubata da un plebeo?

Un coro di fioche risate si alzò intorno a lei, echeggiando a lungo. — Come potrebbe osare, un plebeo? O Padrona di Kirien, come sia stato rubato il grande gioiello, ormai non lo sa più nessun mortale: signore o plebeo, Fian o un altro qualsiasi dei Sette Popoli. Soltanto le menti dei morti conoscono come sia andato perduto, tanto tempo fa, allorché Kireley l'Orgogliosa, che fu la nonna della nonna di Semley, andò a passeggiare da sola nei pressi delle grotte marine. Ma forse lo si potrà trovare fra i Nemici del Sole.

— Il Popolo d'Argilla?

Uno scoppio di risate, più forti, ma nervose.

— Siedi con noi, Semley, Capelli di Sole, ritornata finalmente dal Nord. — Si sedette a mangiare con loro, e i Fiia si rallegrarono della sua cortesia, così come Semley si rallegrò della loro. Ma quando udirono nuovamente la sua decisione di recarsi dal Popolo d'Argilla per riavere la sua eredità (se davvero era laggiù la Collana), cominciarono a non ridere più; e a poco a poco il numero di quanti sedevano intorno a lei prese a ridursi. Infine rimase un unico Fian, che forse era lo stesso che l'aveva ascoltata prima del pranzo.

— Non andare dal Popolo d'Argilla, Semley — disse il Fian, e per un istante lei sentì un tuffo al cuore. L'ometto, passandosi lentamente una mano sugli occhi dall'alto al basso, aveva fatto oscurare l'aria intorno a loro: i frutti contenuti nei cestini erano divenuti bianchi come cenere, le ciotole colme d'acqua pulita parevano vuote.

— Fra le montagne della Terra Lontana i Fiia e gli Gdemiar si separarono. La separazione avvenne molto tempo fa — disse il piccolo, immoto Fian. — E in un tempo ancora più lontano noi eravamo una cosa sola. Ciò che noi non siamo, essi sono. Ciò che noi siamo, essi non sono. Pensa al sole e all'erba e agli alberi da frutto, Semley; e pensa anche a questo: non tutte le strade che portano in basso sono poi capaci di riportarti in alto.

— La mia strada non va né in alto né in basso, caro ospite mio. Va soltanto verso la mia eredità. Sono decisa a raggiungerla dovunque si trovi, e a riportarmela a casa.

Il Fian le rivolse un inchino, ridendo piano.

Uscita dal villaggio, Semley rimontò sul destriero striato, e gridando addii in risposta agli auguri dei Fiia, s'innalzò nel vento del pomeriggio e volò in direzione sudovest, diretta alle grotte che costellavano le rive del Mare di Kirien, ai piedi delle pendici rocciose.

Pensava di doversi addentrare per una lunga distanza in quelle gallerie fra la roccia, prima di incontrare la razza da lei cercata, poiché correva voce che il Popolo d'Argilla non uscisse mai alla luce del sole, e che temesse anche Grandestella e le lune. Il volo fu lungo: prese terra una volta soltanto, per permettere al suo destriero di andare a caccia di ratti arboricoli, mentre ella consumava un po' del pane che si era portata con sé, nella tasca della sella. Il pane era ormai duro e secco, e sapeva di cuoio, ma conservava ancora una traccia del suo profumo di forno; per un momento, mentre lo mangiava da sola, in una radura delle foreste meridionali, Semley udì il suono di una voce tranquilla e scorse la faccia di Durhal girata verso di lei, alla luce delle candele di Hallan… Per qualche tempo rimase immobile, sognando a occhi aperti quel volto giovane e austero, fantasticando di ciò che gli avrebbe detto, quando fosse tornata a casa portando al collo un tesoro talmente prezioso che, con esso, si sarebbe potuto riscattare un intero regno: «Desideravo un dono che fosse degno del mio consorte, Signore…».

Poi proseguì il viaggio: quando raggiunse la costa, il sole era già tramontato, e dietro di esso stava declinando anche Grandestella. Da occidente s'era levato un vento cattivo, che spirava a raffiche e che cambiava direzione, e il grifone procedeva a fatica. Semley lo fece scendere planando sulla sabbia. Subito l'animale chiuse le ali e raccolse le zampe grosse e leggere, soddisfatto. Con una mano, Semley si strinse il mantello alla gola e con l'altra accarezzò il collo del grifone, che prese a fare le fusa. Il calore della pelliccia le riscaldava la mano, ma al suo sguardo si offrivano solo il cielo livido e pieno di nembi, il mare grigio e la rena scura. E poi scorse una creatura bassa e bruna, che si spostava rapidamente sulla sabbia… un'altra… un intero gruppo di esseri, che correvano, si fermavano ad accovacciarsi dietro qualche masso, riprendevano a correre.

Semley li chiamò a gran voce. E se quelli, prima, non avevano dato segno di vederla, adesso, in un attimo, le furono tutti intorno. Si tennero a una certa distanza dal suo destriero del vento, che aveva smesso di fare le fusa e aveva rizzato un po' il pelo sotto la mano di Semley. Lei afferrò ben strette le redini, lieta della protezione che la bestia poteva offrirle, ma timorosa di qualche suo scatto feroce, frutto del nervosismo. Gli esseri sconosciuti rimasero immobili a guardarla, senza parlare, con i piedi massicci e scalzi ben piantati nella sabbia. Era impossibile sbagliare: erano alti come i Fiia, e in ogni altra cosa erano l'ombra, l'immagine in nero di quegli esseri ridenti. Nudi, tozzi, impassibili, con i capelli neri e lisci, con la pelle grigiastra e umidiccia come quella delle larve; occhi come pietre.

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