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Ursula Le Guin: Il mondo di Rocannon

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Ursula Le Guin Il mondo di Rocannon

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In un mondo ai confini della Galassia, tre razze native – gli Odemiar, abitanti delle caverne, gli elfici Fiia e i Liuar, guerrieri divisi in clan – vengono improvvisamente aggredite e conquistate da una flotta di astronavi provenienti da un universo sconosciuto. Lo scienziato terrestre Rocannon, che si trova in quel mondo, assiste impotente allo sterminio dei suoi amici e alla distruzione della sua astronave. Abbandonato tra popoli alieni, Rocannon guida allora la battaglia per la liberazione, scoprendo che, in breve tempo, la sua figura assume contorni leggendari e che qualcuno lo considera addirittura un dio…

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— Siete voi, il Popolo d'Argilla?

— Siamo Gdemiar, il popolo dei Signori dei Regni della Notte. — Era una voce inaspettatamente sonora e profonda, che echeggiò pomposa nel crepuscolo salmastro e battuto dal vento; ma anche ora, come in precedenza le era avvenuto con i Fiia, Semley non poté capire quale dei presenti avesse parlato.

— Vi saluto, Signori della Notte. Sono Semley di Kirien, moglie di Durhal di Hallan. Vengo tra voi per cercare ciò che è mio per diritto d'eredità, la collana chiamata Occhio del Mare, che fu persa molto tempo fa.

— Perche la cerchi qui, Angya? Qui ci sono solo la sabbia, l'acqua salata e la notte.

— Perché nei luoghi profondi si conoscono le cose smarrite — ribatte Semley, pronta a cimentarsi in quella che si mostrava fin dall'inizio come una lotta d'astuzia, — e perché l'oro che viene dalla terra tende a ritornare alla terra. Inoltre, come dice il proverbio, talvolta il manufatto ritorna a chi l'ha fabbricato. — Pronunciando quest'ultima frase, Semley aveva tirato a indovinare; l'allusione colpì nel segno.

— È vero, la collana Occhio del Mare ci è nota di fama. Venne fatta nelle nostre caverne molto tempo fa, e da noi venduta agli Angyar. La sua pietra azzurra proveniva dai Campi d'Argilla dei nostri cugini dell'Est. Ma si tratta di storie molto antiche, Angya.

— Vorrei ascoltarle nei luoghi dove sono narrate.

Le tozze creature rimasero in silenzio per qualche tempo, come se fossero in dubbio. Il vento che soffiava sulla sabbia era carico di foschia grigia ed era sempre più scuro con il tramontare di Grandestella; il rombo del mare cresceva e diminuiva. La voce profonda riprese a parlare: — Sì, Signora degli Angyar. Puoi entrare nelle Sale Sotterranee. Adesso accompagnaci. — La sua voce aveva un timbro diverso, più dolce. Semley non vi fece caso. Seguì gli Uomini d'Argilla lungo la sabbia, conducendo a briglia corta il destriero dagli artigli aguzzi.

All'imboccatura della grotta (una grande bocca aperta in uno sbadiglio, sdentata, da cui usciva con un sospiro un fetido calore), uno degli Uomini d'Argilla disse: — La bestia volante non può entrare.

— Entrerà — disse Semley.

— No — ribatterono i tozzi esseri.

— Entrerà: non intendo lasciarla qui fuori. Non è mia, e non posso abbandonarla. Non vi farà alcun male, finché la terrò per la briglia.

— No — ripeterono le voci profonde; ma altre intervennero: — Come tu vuoi — e dopo qualche istante d'esitazione l'intero gruppo si rimise in cammino. La bocca della caverna parve chiudersi di scatto alle loro spalle, tanto era buio all'interno della montagna. Procedevano in fila indiana, e Semley veniva per ultima.

L'oscurità della galleria si diradò: erano giunti sotto una boccia di pallido fuoco bianco, appesa al soffitto. Più avanti se ne scorgeva una seconda, e più avanti ancora una terza: tra l'una e l'altra, lunghi vermi nen pendevano a festoni dalla roccia. Via via che procedevano, la distanza tra una boccia e l'altra si accorciava, e infine l'intero tunnel fu rischiarato da una luce fredda e intensa.

Le guide di Semley si fermarono davanti a tre grandi porte che sembravano di ferro e che chiudevano l'imboccatura di tre nuove gallerie. — Qui dobbiamo aspettare, Angya — dissero, e otto rimasero con lei, mentre altri tre aprivano una delle porte ed entravano. La porta si richiuse dietro di loro con un tonfo sordo.

Immobile ed eretta attese la figlia degli Angyar nella bianca e cruda luce delle lampade; il destriero del vento, accovacciato al suo fianco, agitava la punta della coda striata, mentre le grandi ali ripiegate fremevano di tanto in tanto per il desiderio di volare, ormai trattenuto da troppo tempo. Nella galleria, dietro Semley, c'erano gli otto Uomini d'Argilla: sedevano a terra accosciati, e si scambiavano qualche parola con le loro voci profonde, nella loro lingua.

Con un rumore di ferraglia, infine la porta centrale si spalancò. — Fate entrare l'Angya nel Regno della Notte! — esclamò una nuova voce, tonante e orgogliosa. Sulla soglia comparve un Uomo d'Argilla che portava un indumento sul tozzo corpo grigio: le rivolse un cenno, invitandola a entrare. — Vieni ad ammirare i prodigi della nostra terra, le meraviglie create dalle nostre mani, l'opera dei Signori della Notte!

In silenzio, tirando la briglia dell'animale, Semley chinò la testa e lo seguì sotto la bassa arcata, costruita per il popolo nano. Davanti a lei si stendeva un altro tunnel illuminato, le cui pareti umide scintillavano nella luce bianca; sul pavimento, invece di un marciapiede, c'erano due sbarre di ferro lucido, poste a fianco a fianco, che si stendevano a perdita d'occhio. Sulle sbarre era ferma una specie di carro dalle ruote metalliche. Obbedendo ai gesti della sua nuova guida. Semley salì sul carro e fece accovacciare il grifone accanto a sé, senza esitazioni e senza ombra di meraviglia sul viso. L'Uomo d'Argilla salì a sua volta e, sedutosi davanti a lei, prese ad armeggiare con leve e rotelle. Si alzò un forte rumore di macina, si udì il gemito del metallo che striscia sul metallo, e le pareti del tunnel cominciarono a scorrere attorno a loro, sussultando. Le pareti corsero sempre più veloci; i globi di fiamma appesi al soffitto parvero diventare una sola fila confusa; l'aria calda e viziata divenne un fetido vento che le sfilò dai capelli il cappuccio.

Il carro si arrestò. Semley, seguendo la guida, salì alcuni scalini di basalto ed entrò in una vasta anticamera, e poi in una sala ancora più vasta, scavata nella viva roccia da antichi corsi d'acqua o dal lavoro da talpe degli Uomini d'Argilla: le sue tenebre, che non avevano mai conosciuto la luce del sole, erano rischiarate dal misterioso splendore freddo dei globi. Dietro certe grate fissate alle pareti, pale enormi giravano in continuazione, per cambiare l'aria. Nel grande spazio chiuso ronzavano e rimbombavano le voci sonore degli Uomini d'Argilla, il cigolio, il ronzio acuto e le vibrazioni delle pale e delle ruote in movimento, e gli echi e i riverberi di tutti questi suoni sulla roccia. Nell'enorme sala, i tozzi Uomini d'Argilla indossavano vestiti che imitavano quelli dei Signori delle Stelle: calzoni, stivali flosci e tuniche con cappuccio; solo le poche donne visibili, frettolose e servili nanerottole, erano nude. Molti degli uomini dovevano essere soldati, poiché portavano al fianco anni simili ai tenibili lanciafiamme dei Signori delle Stelle, ma la stessa Semley poté accorgersi senza fatica che erano soltanto bastoni di ferro modellato. Semley notò tutti questi particolari con la coda dell'occhio, senza mai posare lo sguardo su uno qualsiasi di essi: si limitò a seguire la guida, senza voltare la testa. Quando giunsero davanti a un gruppo di Uomini d'Argilla che portavano coroncine di ferro sui neri capelli, la sua guida si fermò, s'inchinò profondamente e disse con voce tonante: — I Supremi Signori degli Gdemiar!

Erano in sette, e tutti alzavano gli occhi verso di lei con tanta arroganza sulle facce pallide e sgraziate che Semley dovette fare un notevole sforzo per non scoppiare a ridere.

— Vengo tra voi alla ricerca del tesoro perduto della mia famiglia, o Signori del Regno delle Tenebre — disse loro, in tono grave. — Cerco il bottino di Leynen, l'Occhio del Mare. — Nel frastuono dell'immane cripta, la sua voce pareva perdersi.

— Così ci hanno riferito i nostri messaggeri, nobile Semley. — Questa volta riuscì a individuare l'individuo che parlava: uno che, anche se la cosa pareva impossibile, era ancora più basso di statura degli altri, poiché le arrivava a malapena all'altezza del petto; una faccia bianca, orgogliosa e feroce. — Non abbiamo ciò che tu cerchi.

— Ma l'avevate un tempo, a quanto si dice.

— Si dicono tante cose, lassù dove brilla il sole.

— E le parole le porta via il vento, là dove il vento spira. Non chiedo come la collana sia stata sottratta a noi, né come sia ritornata a voi, suoi antichi creatori. Sono storie vecchie, vecchi rancori. Desidero solamente riaverla, e riaverla adesso. Voi non l'avete; ma forse sapete dove si trova.

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