Lois Bujold - Il nemico dei Vor

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Miles e i suoi Dendarii hanno appena portato a termine con successo una missione di salvataggio in un campo di prigionia, suscitando le ire dell’impero di Cetaganda (come raccontato in
); la flotta cerca allora rifugio sulla Terra, dove Miles dovrà barcamenarsi tra le sue due identità, quella di Tenete Lord Miles Vorkosigan di Barrayar e quella di Ammiraglio Naismith, comandante dei mercenari Dendarii. A complicare il tutto (come se ce ne fosse bisogno) ci si metterà un complotto Komarrano volto a prendere il comando di Barrayar sostituendo Miles con un clone.

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Lois McMaster Bujold

Il nemico dei Vor

CAPITOLO PRIMO

La navetta da combattimento se ne stava accucciata nella stiva di attracco del cantiere di riparazione, silenziosa ed immobile… e anche malevola, secondo l’opinione prevenuta di Miles. La superficie di metallo e fibroplastica era bruciata e piena di buchi. E pensare che quando era nuova gli era sembrata un velivolo così risplendente, efficiente e orgoglioso. Forse tutti quei traumi le avevano provocato un cambiamento psicotico della personalità. Solo pochi mesi prima era stata nuova di zecca…

Miles si passò stancamente le mani sul volto, sbuffando forte. Se davvero nell’aria c’erano le avvisaglie di una psicosi incipiente, non erano certo limitate alla macchina. Nell’occhio di chi guarda, appunto. Districò le gambe dalla panca su cui si era appoggiato e raddrizzò la schiena di quel tanto che gli permetteva la sua spina dorsale. Il comandante Quinn, sempre attenta ai suoi movimenti, lo seguì.

«Ecco» disse Miles zoppicando lungo la fusoliera e indicando il portello di babordo della navetta, «questo è il difetto di progettazione che mi preoccupa maggiormente.» E fece cenno all’ingegnere commerciale dei Cantieri Orbitali Kaymer di avvicinarsi. «La rampa di questo portello si estende e rientra automaticamente, con un comando manuale… e fin qui, tutto bene. Ma il vano si trova all’interno del portello, il che significa che se per qualche ragione la rampa resta fuori, il portello non si può richiudere… con le conseguenze che le lascio immaginare.» Miles non aveva bisogno di immaginarle: da tre mesi erano stampate a fuoco nella sua memoria, un replay istantaneo senza pulsante di stop.

«E lo avete scoperto a vostre spese su Dagoola IV, ammiraglio Naismith?» domandò interessato l’ingegnere, un uomo magro, di altezza leggermente superiore alla media.

«Già. Abbiamo perso… degli uomini. E c’è mancato poco che anch’io fossi tra loro.»

«Capisco» commentò l’altro in tono rispettoso, ma gli tremarono e sopracciglia.

Come osi avere l’aria divertita… Ma per sua fortuna, l’ingegnere non sorrise. Si sporse lungo il fianco della navetta e fece scorrere le mani sul vano della rampa, poi sollevò il viso al di sopra della fusoliera, osservò con attenzione e dettò alcuni appunti nel suo registratore. Miles resistette all’impulso di saltare su e giù come una rana per cercare di vedere cosa stesse guardando: sarebbe stato molto poco dignitoso. Dato che arrivava a malapena al petto dell’ingegnere, per raggiungere anche solo il vano di carico della rampa in punta di piedi gli ci sarebbe voluta una scaletta di almeno un metro. E in quel momento era decisamente troppo stanco per darsi alla ginnastica, né intendeva chiedere a Elli Quinn di sollevarlo. Alzando il mento nel vecchio tic nervoso involontario, attese in posizione di riposo, come si addiceva alla sua uniforme, con le mani dietro la schiena.

L’ingegnere ricadde con un tonfo sul pavimento della stiva. «Sì, ammiraglio, credo proprio che la Kaymer potrà rimediare al problema. Quante di queste navette ha detto che avete?»

«Dodici.» Quattordici meno due faceva dodici, di solito, ma non nella flotta dei Liberi Mercenari Dendarii, dove quattordici navette meno due equivalevano a duecento e sette morti. Smettila intimò Miles alla vocina beffarda che continuava a fare calcoli nella sua mente. In questo momento non fa del bene a nessuno.

«Dodici.» L’ingegnere prese un appunto. «C’è altro?» chiese gettando un’occhiata alla navetta malridotta.

«Saranno i nostri meccanici a effettuare le riparazioni minori, visto che sembra proprio che saremo costretti a fermarci qui per un po’. Ho voluto occuparmi personalmente di questo problema della rampa, ma il mio comandante in seconda, il commodoro Jesek, che è ingegnere capo della flotta, vuole parlare con i vostri tecnici del Salto per la ricalibratura di alcune delle sbarre Necklin. Ho un pilota del Salto con una ferita alla testa, ma mi sembra di capire che la micro neurochirurgia per gli impianti del Salto non faccia parte delle specialità della Kaymer. E neppure il sistema armamenti, vero?»

«No, infatti» confermò frettoloso l’ingegnere. Sfiorò una bruciatura sulla superficie butterata della navetta, forse affascinato dalla violenza di cui il velivolo era stato silenzioso testimone, perché aggiunse: «La Kaymer Orbitale fornisce assistenza soprattutto ai velivoli mercantili. Una flotta mercenaria è una cosa un tantino inusuale da questa parte della distorsione galattica. Come mai siete venuti da noi?»

«Eravate i meno cari.»

«Oh… non alla Kaymer Corporation sulla Terra. Mi stavo chiedendo come mai foste venuti sulla Terra. Siamo parecchio lontani dalle principali rotte commerciali, tranne che per i turisti e per gli storici. Siamo… pacifici.»

Quello che mi chiede è se abbiamo un contratto qui , si rese conto Miles. Qui, su un pianeta con nove miliardi di anime, le cui forze militari tutte insieme si farebbero un sol boccone dei cinquemila effettivi dendarii… giusto. Crede forse che voglia creare guai sulla vecchia madre Terra? O crede che se le cose stessero così, potrei fare uno strappo alla sicurezza e informarlo…? «Pacifici, appunto» disse Miles in tono conciliante. «I dendarii hanno bisogno di riposare e di riprendersi. Un pianeta pacifico lontano dalle rotte principali della distorsione è proprio quello che ci aveva ordinato il dottore.» E dentro di sé rabbrividì, pensando al conto del dottore ancora in sospeso.

Non era Dagoola: l’operazione di salvataggio era stato un trionfo di tattica, quasi un miracolo militare; il suo stato maggiore non aveva fatto che ripeterglielo, quindi forse anche lui poteva cominciare a crederci.

La fuga da Dagoola IV era stata la terza tra le più grandi fughe di prigionieri di guerra della storia, aveva detto il commodoro Tung, e visto che la storia militare era la sua ossessione e il suo hobby, chi meglio di lui poteva saperlo? I dendarii avevano portato via da sotto il naso dell’Impero Cetagandano oltre diecimila soldati prigionieri, un intero campo di PDG, e li avevano trasformati nel nucleo di un nuovo esercito guerrigliero su di un pianeta che fino a quel momento i cetagandani avevano considerato un facile terreno di conquista. I costi erano stati bassissimi a fronte dei risultati spettacolari… tranne che per gli individui che avevano pagato quel trionfo con la loro vita e per i quali il prezzo era qualcosa di infinito, diviso per zero.

«E tutti questi danni li avete riportati su Dagoola IV?» proseguì l’ingegnere, sempre affascinato dalla navetta.

«Dagoola era un’operazione segreta» rispose Miles rigido. «Non siamo autorizzati a discuterne.»

«Qualche mese fa ha fatto grande scalpore nei notiziari» gli assicurò il terrestre.

Mi fa male la testa… Miles si premette i palmi delle mani sulla fronte, incrociò le braccia ed appoggiò la guancia su una mano, scoccando un sorriso all’ingegnere. «Splendido» mormorò. Il comandante Quinn trasalì.

«È vero che i cetagandani le hanno messo una taglia sulla testa?» chiese tutto allegro l’ingegnere.

«Sì» rispose Miles con un sospiro.

«Oh. Ah. Credevo che si trattasse solo di una diceria.» Si scostò di un passo, come se l’atmosfera di morbosa violenza che alleggiava sul mercenario potesse contagiarlo, se gli andava troppo vicino. E forse non aveva torto. Si schiarì la voce. «Ora, per quanto riguarda la formula di pagamento per le modifiche del progetto… lei cosa aveva in mente?»

«Contanti alla consegna» rispose pronto Miles, «previa ispezione e approvazione del lavoro da parte del mio staff tecnico. Erano queste le condizioni della vostra offerta, credo.»

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